In questa pagina andremo brevemente a descrivere e ricordare con voi alcuni mestieri legati all'agricoltura e all'artigianato tipici della cultura e tradizione nell'est veronese ed in particolare della Val d'Illasi. Fino agli anni Trenta i paesi presentavano
un aspetto molto diverso dallattuale sia sotto il profilo delle
attività commerciali che della vita quotidiana. A quei tempi, non
esistevano naturalmente i supermercati o i centri commerciali, inoltre
i mezzi di trasporto e gli spostamenti da un paese allaltro erano
assai rari. Nell'ambito di un'economia basata sulla sussistenza, i mestieri
rispondevano anche alla necessità di fornirsi autonomamente dei
beni indispensabili alla vita, come cibo, indumenti, calzature, attrezzi
da lavoro. Ci arte no sa far, botega sara. L'arte aguzza l'ingegno dicevano i nostri nonni e loro d'ingegno ne avevano tanto anche nel crearsi un mestiere. Le rintronanti grida e i canti che accompagnavano alcuni lavori sono divenuti remoti ricordi insieme ad alcune arti e mestieri che per un lungo periodo sono stati parte della vità dell'uomo, patrimonio della cultura di un popolo. Sopravvivono alcune (sempre meno) testimonianze trasmesse per lo più per via orale e quindi molto labili, per questo ci teniamo a trasmettere quanto da noi reuperato. |
Gli ambulanti sono dei venditori di strada, molto spesso viandanti, che si guadagnano da vivere spostandosi di paese in paese a proporre la loro mercanzia o la loro arte. Quando ancora i mezzi di trasporto non erano così diffusi era il venditore a spostarsi, arrivando direttamente nelle case e nelle contrade a proporre i suoi prodotti in cambio di denaro, ma anche barattando la propria merce con altri prodotti. L'ambulante viandante lasciava la sua casa e la sua famiglia soprattutto in autunno e vi ritornava in primavera. Viveva di poco e dormiva in qualche stalla o dove trovava ospitalità, senza fissa dimora. La sosta durava lo stetto necessario per il suo lavoro per poi spostarsi più avanti. Seguiva un percorso consuetudinario e prestabilito anno dopo anno, un tragitto ereditato dal padre o da chi gli aveva insegnato il mestiere. La gente attendeva il suo arrivo per farsi riparare e sistemare qualcosa, per un piccolo acquisto o per curiosare e conoscere le ultime novità. La loro presenza era sempre un piccolo avvenimento, un invito ad affacciarsi fuori dalla porta, che interrompeva la solita quotidianità della giornata. Spesso l'ambulante portava con se gli attrezzi che gli servivano per svolgere la sua attività e lavorava sul posto come nel caso di arrotini, ombrellai, spazzacamini, etc. Gli bastava una cassettina o una cesta per riporre il materiale o al massimo un carrettino per trasportare i ferri del mestiere come lime, spazzole, corde e quel poco di cui necessitava. Annunciava il suo arrivo o presenza con
un richiamo personale, attirando la clientela con grida emesse
a squarciagola, brevi frasi, la sua frase intonata con una personale melodia
e vocabolario, la sua personale "pubblicità orale". Done el paroloto, el stupa un buso e el ghe ne fa oto (donne lo stagnino, tappa un buco e ne fa otto). Fero vecio, done, Cortèi e sisore da gussar, Capitava anche che in determinate stagioni,
oppure occasionalmente, la gente portasse al mercato i propri prodotti.
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Leggi paragrafo comare e levatrice |
C'è sempre stato un legame profondo tra Verona e il suo fiume anche che si interruppe notevolmente con la costruzione dei muraglioni dopo l'inondazione avvenuta nel 1882. Il fiume Adige è stato in passato molto utilizzato dalle lavandare (lavandaie), dai molinari (mulinai per mulini ad acqua) e dai barcaioli per il trasporto di persone, ma ancor di più delle merci. Lungo le "vie d'acqua" vi era una vera e propria navigazione che collegava i vari paesi e città lungo i fiumi Adige e Po già a partire dal 1100 con delle lotte per il potere e controllo sulla navigazione. Il trasporto lungo le vie d'acqua permetteva di effettuare dei carichi consistenti, maggiori certamente di quello che si sarebbe potuto fare con un semplice carro trainato dal cavallo. In più si sfruttava un bene già presente e gratuito: lo scorrere naturale dellacqua. Questa attività di trasporto fu sostituita dall'avvento della ferrovia e con lincremento del trasporto su mezzi pesanti (camion). Numerose ancora oggi le barche e barcaioli che transitano le acque per la pesca di fiume e di lago. Oggi la navigazione lungo l'Adige e sul lago di Garda è utilizzata per lo più per scopi turistici per il trasporto di gitanti che scelgono di fare un giro in barca per ammirare con calma il paesaggio con il lento scorrere dell'acqua. Fra le varie canzoni di tradizione orale che narrano di questo personaggio riportiamo di seguito il testo di Son barcaiolo il cui informatore è Giovanni S. classe 1927 di Grezzana (Vr) Son
barcaiol son barcaiolo son de l'arte, In
alto mar che noi saremo O
barcaiol, portème a riva Il
disonor l'ò perso in barca |
L'arte magica del bottaio era ed è, per quei pochi artigiani rimasti, quella di far aderire le doghe l'una all'altra, tenerle con i cerchi metallici che venivano poste naturalmente all'esterno aiutandosi con uno speciale attrezzo a forma di scalpello smussato con un lungo manico che si colpiva con un martello. Tutto questo veniva fatto senza l'uso di collanti, con cura e professionalità per realizzare dei contenitori che non facevano perdere il liquido contenuto. |
I
cantastorie erano dei personaggi erranti che portavano informazione nei
paesi di provincia raccontando nei loro spettacoli attualità di
cronaca e favole per la povera gente quando ancora non esistevano radio
e televisione ed i giornali erano letti da pochissime persone. Oltre all'aspetto esteriore e alla gestualità molti cantastorie si aiutavano utilizzando un cartellone illustrato, una tela dipinta e divisa in riquadri dove vi erano rappresentati i passi principali del loro racconto.
Durante i loro spettacoli vendevano i "fogli volanti" su cui erano scritti i componimenti della loro cantata. Alla conclusione della recita oltre agli applausi si aspettavano anche qualche moneta in cambio della loro esibizione. Nelle nostre valli il cantastorie veniva chiamato torototela. Lo si vedeva soprattutto nei mesi invernali, quando cioè la gente aveva più tempo per stare ad ascoltarlo. Dormiva dove capitava, spesso nelle stalle delle famiglie che li ospitava per una notte. Dalla metà del Nocevento la figura del cantastorie si è molto ridotta, oggi se ne contano poche decine in tutta Italia. |
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Il materiale di partenza è la legna che viene tagliata in varie misure e accatastata in una piramide attorno a dei pali verticali (castelletto) che fanno da camino alla carbonara. I vari pezzi di legna di varie lunghezze e spessore vengono disposti ad arte cercando di non lasciare spazi vuoti, ma permettendo però la giusta areazione durante la combustione. Una carbonara di discrete dimensioni richiede circa 80-100 quintali di legna. Una volta pronta la catasta di legna viene ricoperta da terra e fogliame.
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Dall'alto
del foro si introducono dei pezzetti sottili di legno di 4-5 centimetri,
gli gnocchi, che servono a tenere accessa la carbonaia così
che possa covare e consumarsi lentamente.
Intanto con lapposito fumaiolo si fanno dei fori laterali alla carbonaia
lasciando fuoriuscire il fumo. Ogni
anno sono numerosi gli amici, le scolaresche e appassionati che arrivano
a Giazza (Vr) a guardare la carbonara e tenere compagnia alla famiglia
Boschi che immancabilmente fa trovare una fetta di salame con la polenta
e una tazza di caffè per i suoi ospiti. . E'
necessaria molta attenzione ed esperienza per tener conto delle numerose
variabili che determinano il buon andamento del processo. A questo punto si toglie la terra e il carbone prodotto viene steso e lasciato raffreddare per qualche ora per poi essere riposto in sacchi e trasportato in luogo asciutto dove viene conservato fino al suo utilizzo.
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CAREGHETA (impagliatore di sedie) La principale attività del caregheta consiste nel rifare la base del sedile delle sedie. L'impagliatore tira, annoda, contorce e intreccia fili d'erba fino a ricavarne un cordone che si allunga mano a mano che procede con il suo lavoro e in base alla necessità inserendo altri fili di paglia e avvolgendo così tutto il sedile fino a ricoprirlo interamente creando delle particolari forme geometriche a rombi o triangoli di diverse sfumature (l'immagine che segue ne mostra un esempio).
Con la sostituzione delle sedie impagliate con seggiole plastificate o imbottite di altro materiale è andato di conseguenza quasi scomparendo il lavoro e la figura del caregheta, oggi è ormai un'arte conosciuta da pochi appassionati.
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Il
carrettiere l'è un bel mestiere s'ciocar la scuria
(schioccare la frusta).... così gridava il carrettiere quando
entrava in paese facendo lo spaccone per farsi notare dalle ragazze. Il
carrettiere di un tempo non aveva padroni e di questo era orgoglioso.
Generalmente erano di sua proprietà sia il carretto che il cavallo.
La forma di pagamento era quella a viaggio, la retribuzione era pattuita
in base al percorso da compiere e al tipo di merce da trasportare. El
caretier partiva la mattina presto, quando era ancora buio, mangiava
qualcosa seduto sul carretto e poi la sera, poi quando era di nuovo
buio tornava a casa. Durante questi lunghi tragitti alleggeriva la pesantezza
della monotonia e la solitudine improvvisando stornelli incentrati sul
proprio lavoro o sulla propria ragazza. I carrettieri hanno da tempo abbandonato carro e cavallo sostituiti dai camionisti che con i loro bisonti percorrono veloci le strade di paesi e città trasportando grandi quantità di merci. Di seguito un canto narrativo che ci ha insegnato Nani salata (Giovanni Salvagno) di Grezzana. Una canzone d'amore dedicata ad un giovane minatore morto nella miniera di lignite del Vajo Paradiso. Il caretiere Il
caretiere è un bel mestiere E
la sente el s'cioco de la scuriada Ero
sul ponte che lavoravo Poi
giunti i sbiri e la sbireria M'anno
condoto in una gran sala L'esaminatore
l'era un bonomo M'à
domandato nome e cognome La
patria mia l'è tirolese Il
caretiere è un bel mestiere |
CASARO
(fare formaggio)
Il
luogo adibito a fare il formaggio è la casara, ma negli
alti prati della Lessinia, dove d'estate vengono portate le mucche, vi
è anche un altro edificio che viene utilizzato per fare il formaggio:
il baito. Nel caseificio vi è uno stanzone adibito alla
conservazione del latte, uno per la lavorazione chiamato el logo del
fogo (fuoco) e uno o più locali per la conservazione delle
forme di formaggio che vengono riposte su appositi scaffali a riposare
e stagionare.
Dove invece non è possibile lavorare sul posto il latte passa el lataro (lattaio) a prelevare il raccolto dalla mungitura delle vacche, capre e pecore, oggi con l'utilizzo di moderne autobotti, e lo trasporta nei caseifici del territorio o della pianura per la lavorazione e trasformazione in formaggio. Con le sue mani esperte e l'utilizzo di appositi attrezzi e macchinari il casaro è in grado di lavorare il latte e con dei precisi procedimenti e ingredienti trasformarlo in burro, ricotta, mazzarella, yogurt e formaggi di vario tipo, stagionatura e misura. E' compito del casaro anche passare a controllare le forme di formaggio, salarle, girarle per farvi prendere aria, spazzolarli dalla muffa in eccesso e tutte quelle operazioni necessarie finché il prodotto è pronto per essere venduto.
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COMARE - LEVATRICE (ostetrica) e BAILA (balia) Fino a circa
cinquant'anni fa le donne partorivano normalmente da sole in casa, ancora
meglio in camera da letto. Molto raramente
si interpellava un medico, soprattutto per le ristrettezze economiche
che impedivano di retribuire la sua prestazione. Se la mamma
non ha latte spontaneamente il neonato viene affidato per l'allattamento
ad un'altra donna che di latte ne ha in abbondanza, non era difficile
trovare altre neo-mamme nelle vicinanze. La mamma consegna quindi il figlio
alla baila (balia) per il periodo
necessario all'allattamento ricambiando come può l'aiuto nel momento
di difficoltà. Il neonato diventerà fradel
de late (fratello di latte) con i figli naturali di costei. Vi
erano donne che facevano la "baila di professione" facendosi
pagare in cambio del latte per il neonato... in tempi di grave crisi economica
ogni strumento era buono per raccimolare qualcosa. Un discorso
a parte va dedicato alla coarantia cioè
al periodo dei quaranta giorni dal parto perché fin
che no l'è sta benedia la ga el diaolo a schena ossia finché
la donna non riceve la benedizione dopo la quarantena si pensa che sia
impossessata dal diavolo e per tale motivo non può né uscire
di casa né tantomeno occuparsi delle faccende domestiche. Queste
credenze popolari erano comunque utili alla partoriente per lasciarle
il tempo di riprendersi e tornare in forze. El
mal che se ciapa in coarantìa, e che in coarantìa no 'l
vaga ia, no 'l va pì ia (il male che si prende durante
la quarantena e che non guarisce in quel periodo non se ne andrà
più via). La levatrice era una posizione di rispetto sociale alla stregua del medico, del parroco e del spessiàl (farmacista) del paese. La comare veniva inoltre interpellata anche per eventuali interruzioni di gravidanza. Molte volte la comare accompagnerà poi il neonato al battesimo facendogli da madrina, una sorta di seconda mamma. Dal 1888
(Governo Crispi) venne emanata una legge che regolava l'abilitazione alle
donne che frequentavano il corso e il successivo esame di ostetrica/levatrice.
Queste donne erano quindi più preparate ad intervenire a casa diminuendo
notevolmente i casi di mortalità dovute al parto e le infezioni
causate dalla mancanza di norme igieniche con l'obbligo di chiamare il
medico a casa se durante la nascita vi fossero state delle complicanze
per la puerpera o per il neonato. In Lessinia orientale molto note come
comari erano la Pulchiria di Velo (la comarona de Velo) e la Lucia di
Badia Calavena.
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Il famiglio era un giovane ragazzo che, a causa delle ristrettezze economiche,
veniva inviato a lavorare in cambio di vitto e alloggio, una normalità
ai primi del 1900. Un detto popolare dice che se
no gh'è farina 'ntel casson gh'è el diaolo 'ntel canton,
una fame vecchia, antichissima che pretende la pancia piena. I faméi
sono ancora bambini quando si devono staccare dalla loro famiglia e
andare presso altre case a fare lavori da grandi. Spesso la trattativa
avveniva durante la fiera di San Martino (11 novembre) a Tregnago. Il
contratto da faméo prevede di star via di casa fino alla fiera
dell'anno successivo, ma a Pasqua qualcuno ritorna a casa per qualche
giorno. |
Per tanti
secoli i cavalèri (i bachi da seta)
furono considerati una vera e propria ricchezza e fonte di reddito per
tante famiglie contadine di molte zone dItalai, anche nella zona
orientale del veronese. I contadini misero a dimora una grande quantità
di moràri (gelsi) intervallandoli
nei campi con le viti, oppure lungo i fossati. La foglia dei moràri
era l'alimento principale dei bachi da seta. L'allevamento dei cavalèri iniziava nel mese di aprile (tradizionalmente il giorno di san Marco, il 25 aprile) e per farli crescere venivano alimentati con le foglie dei gelsi ogni tre ore, giorno e notte. Nei primi venti giorni dalla loro nascita stavano in cucina, dopo si portavano in camera da letto dei ragazzi o nel granàr (granaio), ovvero in ampie stanze ben chiuse e calde, dove erano coperti con paglia e bastoni raccolti durante i mesi invernali sopra a lettiere e graticci.
La larva
allo stato adulto raggiunge i 9 centimetri e supera i 4 grammi. Ai primi
di giugno i bachi (galete) erano pronti per
la raccolta, perciò la famiglia, con qualche aiutante, si disponeva
attorno ai bozzoli e iniziava a staccarli e separarli in diversi gruppi,
i bianchi, i gialli, quelli macchiati e quelli incompleti, ai quali corrispondevano
prezzi diversi legati appunto alla qualità del baco da seta. Solo una piccola quantità di bozzoli arrivava a completare la metamorfosi, quando il bruco si trasforma in crisalide e poi in farfalla che uscirà dal guscio per deporre le uova. Per uscire dal bozzolo la farfalla fa un foro rendendo così il filo di seta di seta inutilizzabile. Dalla metà dell'ottocento la produzione di seta viene prodotta sempre meno a livello casalingo, ma nelle filande (fabbriche che lavorano la seta). All'inizio le filande non erano che edifici di campagna di proprietà del padrone della terra nei quali si lavorava solo d'estate. Con lo sviluppo industriale le filande divennero numerosissime, spesso in mano agli stessi mercanti di seta. La manodopera era fatta di giovani ragazze per lo più contadine che per arrotondare il magro bilancio della famiglia, accettavano situazioni di lavoro pesantissime, dalle undici alle quattordici ore giornaliere, in condizioni igieniche spesso malsane e con salari bassissimi.
Nelle filande
si provvedeva al soffocamento dei bachi mediante stufatura in forni statici
o girevoli. L'immersione in acqua bollente permetteva il dipanamento del
filo di seta sciogliendo parzialmente lo strato proteico di sericina che
avvolge il filo di seta. Da molti anni è ormai scomparsa nelle famiglie veronesi la coltivazione del baco da seta. |
Il carretto passava e quell uomo gridava gelati: così iniziava una canzone di Lucio Battisti del 1972. Infatti i venditori ambulanti generalmente passavano attraverso le strade più importanti di Verona e al suono di una trombetta o di una campanella alternavano il loro grido: gelati, gelati! Lattività di venditore ambulante di gelati risale agli inizi del XX secolo. Nel gelato artigianale l'ingrediente presente in maggiore quantità è il latte seguito dagli zuccheri e dalla panna cui vengono aggiunti i diversi ingredienti che ne danno il gusto per esempio frutta, nocciola o cioccolato, ecc. Un tempo i gelati si preparavano con la neve, o meglio, con il ghiaccio. Nella stagione estiva e durante le feste religiose si era soliti vedere il carretto del gelataio, posizionato in una strada centrale del paese, che serviva i suoi prodotti ai piccoli golosi e agli accaldati avventori. In molti ricordano ancora la sagra paesana e il venditore di granatine che prendeva da un secchio il ghiaccio che grattava con la grattacasola riempiendo un bicchiere in cui poi versava qualche goccia di sciroppo alla menta o amarena, era davvero un'occasione speciale, una festa per grandi e piccini. Nella campagna molto raramente si poteva incontrare un gelataro, per mangiare il gelato si doveva aspettare di andare in città. Il gelataro girava con un carretto poggiato su una specie di bicicletta nelle quali vi erano delle grandi vaschette contenenti il gelato o meglio le creme, sotto vi era la vasca con il ghiaccio. La sua arte stava anche nel mantenere la temperatura costante del gelato per evitare lo scioglimento dello stesso o la formazione di ghiaccioli, al tempo non esistevano ancora i frigoriferi. Il carretto del gelataro era fornito anche di caramelle, pesciolini di liquirizia, lecca-lecca, per attirare lattenzione dei ragazzini e in alcuni periodi dellanno vendeva anche frutti di bosco, soprattutto corbezzoli, che preparava in cartocci di carta spessa, sagomati a forma di cono. Era un tipo simpatico e spesso inventava battute, modi di dire o brevi proverbi e storie gioiose rigorosamente in dialetto, che avevano lo scopo di richiamare e invogliare i passanti allascolto solleticando i loro palati allassaggio dei suoi gustosi prodotti. |
I
giassarói tenevano continuamente docchio le pozze dellacqua
piovana. Esse venivano puntualmente pulite, durante lestate, prima
che cominciassero le piogge e i freddi autunnali. Quando poi avevano certezza
che si era formato un certo spessore di ghiaccio, con degli appositi attrezzi
da loro inventati, contrassegnavano la superficie dello stagno con dei
riquadri, solcavano lo spessore con delle scuri molto affilate, lo tagliavano
in lastre regolari lunghe e larghe 80 centimetri, lo spessore, invece,
variava in base alla temperatura. Ottenevano così dei lastroni
che una volta tagliati, venivano arpionati e tirati sullacqua fino
al limite della pozza con dei ganci forniti di manici di legno.
La giassàra del Grietz o "Gries", come viene denominato in dialetto, si trova nella omonina contrada di Bosco Chiesanuova all'interno del parco della Lessinia. E' stata costruita intorno al 1870 da Innocente Menegazzi di professione "murador" (muratore) che abitava in contrada Sponda. Questa giassara è tra le più belle ed originali della Lessinia soprattutto per la morfologia dell'appice di copertura, cioè il tetto che si presenta slanciato e spiovente in laste di pietra.
Le
giassare generalmente hanno due "bocàre" (aperture):
la più bassa per riporre i blocchi di ghiaccio che si estraevano
dalla pozza, l'altra a livello della strada per caricare il ghiaccio
direttamente sulle carrette e portarlo in città. |
El
lataro (lattaio) faceva il suo giro quotidiano per le case, di
buon mattino, per consegnare il latte fresco a domicilio. I ritiri del
latte li effettuava la mattina presto, appena munto dalle vacche delle
stalle vicine e poi partiva per le consegne a domicilio. Girava con un
carretto o in bicicletta con appesi ai lati i bidoncini di latta contenenti
il latte da distribuire... chi ne comprava un litro, chi mezzo, chi un
quarto, non tutti si potevano permettere di acquistare quotidianamente
il latte.
Annunciava
il suo arrivo con grida o col suono del campanello della bicicletta. Davanti
alle porte che lui sapeva, fermava il carretto o la sua bicicletta, che
appoggiava sul cavalletto o al muro di casa, riempiva la bottiglia o i
recipienti che aspettavano in bella mostra davanti alla porta, risaliva
in bicicletta e via, verso unaltra casa. Talvolta cera qualcuno
ad aspettarlo con il contenitore in mano.
Quello
del lattaio era un mestiere d'altri tempi, molto importante, ma anche
molto faticoso. Il lattaio che girava per i paesi aveva la pelle screpolata,
escoriata dal freddo e dai lavori nei campi e nella stalla. Le sue dita
erano gonfie di stanchezza e dal gelo d'inverno e dalle levatacce ogni
mattina prima del sorgere del sole. |
La lavandara (lavandaia) era la donna che lavava la biancheria degli altri. Di tale servizio ne usufruivano le famiglie benestanti che potevano permettersi di pagare. Di solito il lavoro veniva svolto da vedove o donne che non avevano di che vivere. Il lavoro veniva eseguito lungo i corsi d'acqua, nei lavatoi pubblici ed anche nelle fontane. Prima dell'arrivo delle oderne lavatrici i panni venivano lavati solo a mano. Lavar le robe (fare il bucato) era un affare serio in quanto richiedeva molta fatica e molto oio de gombio, le donne erano quasi sempre inginocchiate con le mani costantemente nell'acqua. Non esistevano detersivi e ammorbidenti già pronti, bisognava produrli autonomamente. Due tre giorni prima di quando si stabiliva di fare l'operazione di lavaggio, si metteva da parte della cenere del focolare che veniva riposta in un bidone in metallo che si riempiva con dellacqua. Dopo un paio di giorni il bidone si poneva sul fuoco e lacqua contenuta veniva fatta bollire, ottenendo così la lìssia che costituiva il detersivo del passato. Il sapone si produceva cuocendo il grasso del porsel (maiale), profumato con fiori di lavanda o alloro e poi versato negli stampi di legno e fatto raffreddare fino allindurimento. Solo in tempi più moderni si aggiungeva anche la soda caustica. Lo stesso sapone veniva utilizzato anche per ligiene umana, cioè per lavarsi. Fare la lavandara consisteva nellandare nelle case signorili a recuperare i vestiti, caricarseli in spalla o nelle ceste e portarseli al fiume per poi tornare i giorni successivi a restituirli lavati e stirati e riscuotere qualche moneta. Nelle contrade e nei piccoli paesi di campagna erano invece le donne di casa a lavare i panni della propria famiglia. Molto nconosciute le lavandare di Avesa, frazione vicina a Verona che già dal 1500 andavano lungo il fiume Lorì per lavare il bucato, ancor oggi a testimoniare questa attività è la presenza di numerosi lavatoi. Lavare i
panni era un vero e proprio rito. Il bucato più piccolo veniva
lavato circa una volta la settimana, mentre la biancheria più grande
come le lenzuola venivano cambiate e lavate due-tre volte l'anno, generalmente
in primavera e in autunno.
Il bucato veniva poi steso ad asciugare al sole. Una volta asciugata la biancheria veniva diligentemente stirata con il ferro da stiro alimentato dal calore della carbonella e riposta nella cassapanca o nell armàro (armadio) poiché doveva durare il più possibile. I lavatoi costituivano dei veri e propri punti di socializzazione per le massaie, che qui si scambiavano consigli e pettegolezzi, partecipando alle gioie ed alle digrazie le une e delle altre. E
anche su questa attività l'estro e la fantasia popolare non è
mancata, sono molti i canti narrativi che si sono tramandati fra valli
e città d'Italia, fra questi alcuni sul tema la pesca dell'anello.
Di seguito la versione veronese da noi raccolta "La bela la va
al fosso" La
sbassa li occhi a l'onda
E
qoan l'avrai pescato
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Vedi capitolo COMARE |
Il nome è legato all'attività del falegname, il "maestro d'ascia" che in dialetto viene appunto detto marangon. Il falegname è uno dei mestieri più antichi perché il legno era uno dei materiali più usati per costruire carri, utensili per lavorare i campi, telai, attrezzi da lavoro, allestimenti navali. Oltre a queste opere più grezze l'artigiano ha iniziato col tempo a costruire porte, finestre e mobili per la casa sino a creare opere meravigliose. Le case di cento anni fa nelle nostre campagne erano molto spartane e semplici: in cucina c'erano il tavolo, le sedie, la madia e una vetrinetta per le poche stoviglie, in camera solo il letto e il baule che conteneva i pochi indumenti, qualche volta l'armaron (armadio) a due ante.
Ormai siamo abituati a comprare mobili in serie ma c'è ancora chi produce artigianalmente mobili di alta qualità: curati nei minimi particolari e costruiti solo con legni pregiati, quali il noce, il castagno, il ciliegio, ecc. |
Nel mondo
contadino di un tempo il maiale costituiva un'importante ed essenziale
risorsa per la famiglia, era l'alimento proteico principale del quotidiano
companatico. . . Il norcino
con autorità e con toni secchi ed imperativi, controllava e officiava
secondo una esperienza maturata nel corso di tanti anni, attento ad ogni
passaggio, pronto a sollecitare il lavoro, controllando modalità
e scelte della concia e della pugnatura dell'impasto del salame. Si faceva
aiutare nella pelatura del maiale, nel lavaggio dei budelli, nella manovra
del tritacarne (fino a poco tempo fa avveniva manualmente), per la riduzione
delle carni in pezzi grossolani, per la legatura e la foratura degli insaccati
ed altre operazioni minori. Erano in ballo il suo onore, reputazione,
notorietà e da queste dipendevano la possibilità di futuri
ingaggi. Per uccidere
la bestia il norcino affondava con rapidità e sicurezza un coltello
lungo e sottile sotto il collo e con un colpo maestro tranciava di netto
larteria carotidea per far uscire rapidamente tutto il sangue. Una
donna raccoglieva il sangue dell'animale rimestandolo continuamente, perché
non coagulasse e non si formassero grumi. Dal sangue, mescolato con farina
di grano, zucchero e uva passa si sarebbero poi ricavati i brigàldi
o brigàldoli, le morète e i sanguinacci. La bestia
viene stesa su delle assi, si raccoglie il sangue e subito dopo la pelle
viene sbollentata con acqua calda e raschiata con la raspa o la lama del
coltello per togliere le setole che non devono essere tagliate ma estirpate.
Poi si ricominciava
il lavoro, le meséne vengono portate dentro e deposte su un tavolo
e il mas'ciaro dopo aver staccato la cotenna dalla parte grassa del lardo
e della pancetta, tagliava subito alcune braciole, di due/tre costole
ciascuna, a seconda della famiglia o del personaggio cui erano destinate,
le carni sono tagliate in strisce e macinate. . . El
mas'ciaro preparava poi la consa (concia), la cui ricetta è un
segreto professionale del quale erano gelosissimi custodi e che non confidavano
a nessuno. Le carni magre e le parti grasse (circa un terzo delle prime)
venivano macinate, sistemate in un largo contenitore di legno detto mésa,
pesate, conciate diversamente per salami e cotechini, e poi pugnate cioè
lavorate lungamente con le nocche delle mani chiuse, finchè la
massa diventava via via più compatta. La prova che era pronto la
si verificava quando un po dellimpasto sbattuto nel palmo
e poi capovolto, restava attaccato alla mano. Era pratica consueta non
salare troppo limpasto e per capire quanto sale si doveva ancora
eventualmente aggiungere, si metteva un poco di pesto in un tegame, lo
si cuoceva sulle braci e tutti i presenti lo assaggiavano. Era più
che altro una scusa per mangiare un boccone assieme e bere un goccio di
vino. Questo impasto si chiama tastasal e viene utilizzato anche
come condimento per un ottimo e saporito risotto.
I salami, le pancette, le coppe ed i cotechini vengono disposti sul baldachìn cioè legati sopra una impalcatura che si fissa al soffitto della cantina. É il trofeo della famiglia, che tutti ammirano con occhio compiaciuto. Dopo circa
una settimana si mettono in cantina. Con l'accrescimento del benessere collettivo, delle raccomandazioni della medicina sui pericoli del colesterolo "polistirolo", dei "tricicli" cioè dei trigliceridi e della modifica di tipologia delle abitazioni ormai prive della storica e fresca cantina, la pratica de far su el mas'cio in casa si è andata sempre più riducendo. Oggi si va al supermercato. Il maiale non è più considerato come prezioso sussidio alimentare da lesinare con parsimonia per farlo durare più a lungo possibile, ma occasione di vivaci incontri amicali, di feste e sodalizi. |
ll sensaro detto anche mediator è quella persona che, dietro compenso, cerca di convincere due parti a combinare un acquisto per esempio la vendita di una vacca, di un campo, per un contratto di lavoro, ma anche per combinare matrimoni. In ogni paese vi è almeno un mediatore, un intermediario che si prende l'impegno di contrattare, tirando sul prezzo di una merce finché non riesce a strappare l'accordo fra le due parti facendogli stringere la mano. La contrattazione durava per ore, a volte anche per giorni. Spesso avveniva durante il mercato settimanale. Un tempo gli accordi venivano stipulati verbalmente e siglati da un sonora schiaffo di mani o da una stretta di mano, non vi era bisogno di andare dal notaio. Dopo l'affare immancabilmente ci si spostava all'osteria per bere un bicchiere di vino. |
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El moleta è fra le figure più rappresentative nel mondo dei mestieri ambulanti. Il moleta deve il suo nome all'arnese principale del suo lavoro: la mola (pietra abrasiva), una ruota che girava in base alla velocità con cui l'arrotino pedalava e su cui appoggiava la lama di un coltello o altri arnesi per affilarla (arrotarla) e assottigliarla. Il moleta gussa (aguzza) ferri da taglio come coltelli, forbici, rasoi, attrezzi che spesso vendeva per arrotondare i suoi guadagni.
Questo lavoro originariamente veniva svolto con un trabiccolo a ruota, una sorta di bicicletta, molto pesante e ingombrante su cui era montata la mola. Sopra la mola vi era collocata una scatola piena di acqua e un rubinetto che gocciolando continuamente impediva alle lame da affilare di diventare troppo calde. A lavoro terminato restituiva gli utensili affilati come rasoi. |
Il
grano e la farina da esso ricavato sono sempre stati alla base dell'alimentazione
dell'uomo. Schiacciando e pestando le varie granaglie si ricavava la farina
da cui poi si produceva il pane. L'uomo ha imparato a ricorrere all'utilizzo
di mezzi meccanici costruendo prima i mulini a braccio (spinti dalla forza
dell'uomo o degli asini) e successivamente i mulini ad acqua. Il
molinaro era una professione molto ambita in quanto redditizia.
Il mugnaio era preposto all'attività del mulino, ma raramente ne
era anche il proprietario. I mulini erano proprietà dei Signori
del ceto borghese. Il contadino ha il grano, ma le macine le ha il mulinaio
e quindi è proprio quest'ultimo ad avere la meglio. Finché
c'è bisogno di pane, c'è bisogno del mugnaio, era questa
la forza dei mulinai.
Chi
va al mulino s'infarina. Il
mulino era un servizio sociale che doveva essere assicurato a chiunque
ne avesse bisogno. La gente doveva affidare il loro piccolo tesoro di
grano a questi uomini avidi e spesso imbroglioni sperando che tornasse
nelle loro case tutta la farina ricavata dalla macinazione. Molte le riserve
e i sospetti che si insinuavano a tale riguardo fra la popolazione. A
poco sarebbe valso cambiare mugnaio, infatti si dice che se te cambi
molinaro te cambi ladro. Molto
spesso il mulinaio aveva anche il possesso sull'utilizzo delle acque,
il cui sfruttamento rientrava nella possessione feudale. Per poter esercitare il suo lavoro il mugnaio, a differenza di molti altri, quasi sempre sapeva leggere, scrivere e fare di conto (fare i conti) e questo dava alla sua figura ancor più importanza e rispetto agli occhi del popolo. I
mulini ad acqua hanno funzionato fino a metà Ottocentro o al massimo
inizio del Novecento, poi sono stati sostituiti da turbine elettriche
e poi sono andati in abbandono sostituiti da grandi macchine a motore
industriali. Fra i numerosi canti che abbiamo recuperato vi è Pinota che racconta di un mulinaio un po' biricchino. 0
Pinota, bela Pinota, 0
Pinota, bela Pinota, E
la mama là dietro a l'ussio La
Pinota a sediciani |
Per
la coltivazione del riso i corsi d'acqua vengono adeguatamente canalizzati
in appositi campi bonificati con la giusta pendenza del terreno, al
riparo da gelate e con lo sfalcio dell'erba. Il riso è una pianta
che nasce dell'acqua e si sviluppa in immersione. Il
duro lavoro della mondina durava complessivamente 6-7 settimane fra
maggio e giugno. Per tutto il tempo le donne lavoravano costantemente
nel bagnato, in un'acqua che odorava di fradicio, a gambe nude con le
gonne rimboccate fino alle cosce, le mani piene di crepe, il capo coperto
da un cappello di paglia che le riparavano dal sole e dalla pioggia,
la schiena curva per strappare le erbe. La loro pelle era ferita e irritaa
dalle erba, scorpioni d'acqua, cimici, zanzare, bisce, rane e stuoli
di moscerini. Durante la mondatura le donne ricurve avandavano in fila,
mentre per il trapianto indietreggiavano lungo la risaia. La "battaglia per le otto ore" di cui la storia ci racconta impegnò molte mondine. Durante il lavoro era proibito parlare, ma era concesso cantare per accompagnare il lavoro nell'acqua, per dargli il ritmo "tum, tum". E le donne cantavano, cantavano per struggimento e per allentare la tensione, cantavano strofe di botta e risposta, facendo la cronaca della giornata, cante di opposiioni, di rivolta contro il padrone, contro la vita opprimente della risaia, ma anche di odio e amore di queste povere donne che assumono i caratteri del canto sociale. Moreto, moreto l'è un bel giovinéto che porta i capelli all'onda del mar... Mamma non piangere se sono consumata, è stata la risaia che mi ha rovinata... Sebben che siamo donne, paura non abbiamo, per amor dei nostri figli in lega ci battiamo... Sciur padrun da li béli graghi gianchi, fora li palanchi, fora li palanchi. Sciur padrun da li béli brachi bianchi, fora li palanchi c'anduma a cà.... Senti le rane che cantano, che gusto che piacere lassiare la risaia, tornare al mio paese... Poi, verso gl anni Cinquanta, sono arrivate le macchine che misero fine a queste situazioni sociali, culturali e umane. Di quell'epoca resta l'insegnamento e la memoria di chi l'ha vissuta sulla propria pelle e l'ha trasmessa con le proprie testimonianze e nelle cante arrivate ai nostri giorni. |
Quando
l'ombrello si rompeva non veniva gettato, ma veniva riparato. L'ombrelaro
sapeva sostituire le stecche, il manico oppure mettere una toppa sulla
tela (tacon in dialetto) se vi era uno strappo o in casi estremi sostituire
l'intera tela se logorata. L'ombrelaro era un ambulante che si spostava portando con se i pochi attrezzi che gli servivano per il suo lavoro. Nel suo peregrinare aveva delle tappe fisse dove si fermava all'angolo di qualche via e sedeva su un gradino in attesa della clientela.
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Done el paroloto,
el stupa un buso e el ghe ne fa oto (donne lo stagnaio, tappa
un buco e ne fa otto).... questo era uno dei richiami utilizzato dal
paroloto per comunicare il suo arrivo nelle contrade e nelle strade
di paese. El paroloto spesso era un ambulante che effettuava le riparazioni lungo le strade, anche perché spesso non si aveva la disponibilità di altre pentole o padelle. Sul foglio di lamiera si applicavano le forme per ottenere l'oggetto desiderato e con un bulino si disegnavano i contorni; poi con una cesoia si ritagliava, si piegava, si modellava, e si saldava. Prima ancora di attaccare il manico agli utensili, si martellava tutto per eliminare quelle forme lisce o lucenti e dare così maggior resistenza.
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Ogni anno in tarda primavera o inizio estate quando l'erba nei prati è abbastanza alta, ma ancora tenera, si inizia a tagliarla, seccarla e portarla nel fienile per avere così la scorta di foraggio per l'inverno. Un tempo tutte le operazioni legate al taglio del fieno erano eseguite a mano. In alcune annate si riesce ad avere il fieno per un successivo secondo taglio, l'ardiva. Mentre in pianura è più facile avere grandi distese di prato pianeggiante, nelle colline veronesi i prati sono ricavati a spese dei boschi dove ancora oggi non è per nulla agevole coltivare lerba sui terreni, quasi tutti in forte pendenza. La
falciatura comincia alle prime luci dellalba. Fin da lontano si
sente il rumore prodotto dalla falce che recide gli steli umidi di rugiada.
Lerba
falciata viene distesa e rivoltata più volte durante la giornata
per asciugarla bene. Dopo il taglio dell'erba intervengono le resteline,
prevalentemente donne che armate di
rastrello hanno il compito di rivoltare il fieno per arieggiarlo e farlo
seccare. Operazione molto importante perché un fieno umido e non
ben seccato dal sole rischia poi di ammuffire nel fienile e non sarebbbe
più idoneo per l'alimentazione animale.
Se
la giornata è ben soleggiata prima di sera il fieno è secco
a sufficienza, si procede quindi ad accumularlo in lunghe file che poi
vengono caricate sul carro e portate in stalla oppure vengono preparati
dei covoni sul posto che se ben preparati permettono di preservare il
fieno all'interno protegggendolo dalla pioggia e dalle intemperie. Il
prato viene ben rastrellato e lasciato perfettamente pulito. Il fieno in stalla viene utilizzato per l'alimentazione animale (nel veronese soprattutto vacche ma anche pecore, capre, cavalli) nel tempo che intercorre tra il ritorno del bestiamo dai pascoli dopo la transumanza alla ripartenza per gli alti pascoli verso la fine di maggio. Il contadino deve quindi valutare bene di avere una scorta di fieno sufficiente da dosare al bestiame fino a quando non li riporterà fuori dalla stalla a brucare l'erba nei prati. Oggi
tutte le operazioni della fienaggione viene svolta per lo più meccanicamente,
tuttavia su alcuni versanti particolarmente ripidi dove non si può
accedere con nessuna macchina agricola il lavoro viene ancora svolto manualmente. |
SARTE (sarto) |
El scarparo
(calzolaio) è colui che costruiva scarpe su misura e di lunga durata.
La qualità delle scarpe era legata alla flessibilità, leggerezza
e cuciture a mano. La durata era legata allabilità nel riparare
le scarpe, risuolatura, mettere i sopratacchi e ricucire le parti che
si andavano squarciando. Gli attrezzi usati erano delle forme in ferro
e in legno di varia dimensione che servivano per inserirci le scarpe,
un caratteristico ed affilatissimo coltello, il martello dalla forma caratteristica,
tenaglia, lesina, raspa, spago, aghi, colla, cera, pece, vetro per levigare
le suole e tutta una serie di piccoli chiodi, il tutto sparso su un basso
tavolo da lavoro.
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SCARIOLANTI |
Vedi paragrafo MEDIATOR |
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Era sovente vedere girovagare per le vie dei paesi gli spazzacamini dal momento che erano tanti i fumaioli da pulire. Un tempo infatti tutte le famiglie utilizzavano stufe e camini per riscaldarsi e fare da mangiare, quindi erano molte per lo spazzacamino le richieste da esaudire. Anche sulle colline veronesi transitavano gli spazzacamini, arrivavano per lo più dalla provincia di Trento, facevano due giri all'anno, uno verso fine ottobre inizi novembre e il secondo verso Pasqua. Spesso erano accompagnati da un ragazzino dall'aspetto esile e dal fisico quindi idoneo per passare dalle strette canne fumarie. Il
lavoro dello spazzacamino consisteva proprio nel ripulire le anguste
e sporche canne fumarie di stufe e camini dove vi rimaneva attaccata
la caludene che impediva il corretto fluire dei fumi del carbone
e della legna. Gli attrezzi che utilizzavano per il loro mestiere erano il riccio, la raspa, lo scopino e le corde. Sono numerose le canzoni sugli spazzacamini. Di seguito il testo del canto Spassacamin che narra di uno spazzacamino un po' biricchino. Spassacamin che vien
dai monti vien dai monti a la cità Salta fora 'na sposeta
la ghe dise 'l vegna qua El tira fora la raspeta,
'l tira fora el martelin Si ritiri bela signora,
si ritiri per carità El finisse de spassare,
el vien so par el camin El ghe dise no signora
mi no voio el borselin Informatore: Coro delle contrade
Cecilia
C. classe 1934 si ricorda che quando era piccola ed abitava a Bolca,
un paesino dei monti Lessini, tutti gli anni passavano due spazzacamini
(padre e figlio) di Trento che si fermavano sempre da loro per pulire
i camini delle abitazioni. La sera mangiavano insieme con la loro famiglia.
Dopo cena si inginocchiavano posando i gomiti sulla tovaglia, badando
a non macchiarla di fuliggine e intrattenevano la famiglia ospitante
con preghiere, filastrocche e storie. Si ricorda in particolare una
storia che narra di una vedova che accetta la sfida del diavolo di imparare
a memoria Le dodici verità di Nostro
Signore in cambio del pasto permanente per sè e per
i suoi figli. La donna presa dalle quotidianità domestiche si
dimentica del patto. La sostituisce Sant'Antonio nel dialogo col diavolo.
Tum,
tum - Chi è che batte - Amici per uno. Esiste
ancora lo spazzacamino, ma oggi i camini si puliscono per lo più
attraverso lutilizzo di apposite apparecchiature tecnologiche
che vengono inserite direttamente nei camini o nelle stufe più
moderne. Per pulire le canne fumarie non serve più intrufolarsi
all'interno, fanno tutto le macchine, anche se chiaramente c'è
comunque bisogno di un occhio attento che controlli loperato della
macchina. |
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La
tiraossi era una guaritrice che con il magico massaggio
delle sue mani e l'utilizzo di qualche olio benefico leniva slogature,
dolore muscolare, mal di schiena. Il lavoro veniva insegnato e tramandato
di madre in figlia. Esistono
ancora delle donne che esercitano questo mestiere anche se ormai la gente
per risolvere i propri dolori si rivolge ai professionisti laureati in
fisioterapia. |
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Fonti
e informatori
La maggior parte di quanto sopra riportato è di nostra conoscenza, e dei molti anziani che negli anni ci hanno dato conferma con la loro testimonianza del sapere popolare. Per chi è in cerca di conferme o approfondimenti consigliamo la lettura di alcuni libri di seguito riportati. Dal libro "La Moscarola" del Canzoniere del Progno - Editrice La Grafica di Vago di Lavagno (VR)- GBE Gianni Bussinelli editore, 2017 Dal libro "Vita e tradizioni in Lessinia" di Ezio Bonomi - Cierre edizioni - 1994 Dal libro "Santi e contadini" di Dino Coltro - La Grafica di Vago di Lavagno (VR) - 1982 Dal libro "I proverbi no' i è mati" di Ezio Bonomi - editrice La Grafica di Vago di Lavagno (VR) - 2009 Dal libro "C'erano una volta vecchi mestieri" di Carlo G. Valli - Cierre edizioni - 2002 Dal libro "Di casa in casa" di Pier Paolo Frigotto - Cierre edizioni - 2015 Dal libro "Canzoniere del Progno" - Cierre edizioni - 1997
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