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VECCHI MESTIERI E TRADIZIONE

 

In questa pagina andremo brevemente a descrivere e ricordare con voi alcuni mestieri legati all'agricoltura e all'artigianato tipici della cultura e tradizione nell'est veronese ed in particolare della Val d'Illasi.

Fino agli anni Trenta i paesi presentavano un aspetto molto diverso dall’attuale sia sotto il profilo delle attività commerciali che della vita quotidiana. A quei tempi, non esistevano naturalmente i supermercati o i centri commerciali, inoltre i mezzi di trasporto e gli spostamenti da un paese all’altro erano assai rari. Nell'ambito di un'economia basata sulla sussistenza, i mestieri rispondevano anche alla necessità di fornirsi autonomamente dei beni indispensabili alla vita, come cibo, indumenti, calzature, attrezzi da lavoro.
Il lavoro nei nostri paesi era basato soprattutto sull’agricoltura.
Con l'arrivo del boom economico avvenuto intorno alla metà del 1900 vi è stato un notevole cambiamento economico e sociale. Alcuni lavori sono ancora presenti anche se si sono modificati ed adeguati negli anni, altre professioni un tempo inesistenti sono oggi presenti nel territorio veronese, ma molti mestieri, legati soprattutto alla manualità dell'uomo e all'artigianato, sono invece scomparsi.

Ci arte no sa far, botega sara.

L'arte aguzza l'ingegno dicevano i nostri nonni e loro d'ingegno ne avevano tanto anche nel crearsi un mestiere.

Le rintronanti grida e i canti che accompagnavano alcuni lavori sono divenuti remoti ricordi insieme ad alcune arti e mestieri che per un lungo periodo sono stati parte della vità dell'uomo, patrimonio della cultura di un popolo. Sopravvivono alcune (sempre meno) testimonianze trasmesse per lo più per via orale e quindi molto labili, per questo ci teniamo a trasmettere quanto da noi reuperato.


AMBULANTE

Gli ambulanti sono dei venditori di strada, molto spesso viandanti, che si guadagnano da vivere spostandosi di paese in paese a proporre la loro mercanzia o la loro arte.

Quando ancora i mezzi di trasporto non erano così diffusi era il venditore a spostarsi, arrivando direttamente nelle case e nelle contrade a proporre i suoi prodotti in cambio di denaro, ma anche barattando la propria merce con altri prodotti.

L'ambulante viandante lasciava la sua casa e la sua famiglia soprattutto in autunno e vi ritornava in primavera. Viveva di poco e dormiva in qualche stalla o dove trovava ospitalità, senza fissa dimora. La sosta durava lo stetto necessario per il suo lavoro per poi spostarsi più avanti. Seguiva un percorso consuetudinario e prestabilito anno dopo anno, un tragitto ereditato dal padre o da chi gli aveva insegnato il mestiere.

La gente attendeva il suo arrivo per farsi riparare e sistemare qualcosa, per un piccolo acquisto o per curiosare e conoscere le ultime novità. La loro presenza era sempre un piccolo avvenimento, un invito ad affacciarsi fuori dalla porta, che interrompeva la solita quotidianità della giornata.

Spesso l'ambulante portava con se gli attrezzi che gli servivano per svolgere la sua attività e lavorava sul posto come nel caso di arrotini, ombrellai, spazzacamini, etc. Gli bastava una cassettina o una cesta per riporre il materiale o al massimo un carrettino per trasportare i ferri del mestiere come lime, spazzole, corde e quel poco di cui necessitava.

Annunciava il suo arrivo o presenza con un richiamo personale, attirando la clientela con grida emesse a squarciagola, brevi frasi, la sua frase intonata con una personale melodia e vocabolario, la sua personale "pubblicità orale".

Done el paroloto, el stupa un buso e el ghe ne fa oto (donne lo stagnino, tappa un buco e ne fa otto).

Fero vecio, done,
strasse, ossi, pele de cunelo
(ferro vecchio donne, stracci, ossa, pelle di coniglio).

Cortèi e sisore da gussar,
done gh'è 'l moléta
(coltelli e forbici da affilare, donne c'è l'arrotino).

Capitava anche che in determinate stagioni, oppure occasionalmente, la gente portasse al mercato i propri prodotti.
Nel periodo autunnale, per esempio, si vedevano i montanari della Lessinia scendere alla fiera di Badia Calavena, il mercoledì mattina, per vendere le castagne che avevano conservato nelle rissare, oppure il malgaro che d'estate portava a vendere il suo burro e formaggio, o la casalinga di San Bortolo che vendeva le uova delle sue galline in cambio di un pezzo di sapone.

 

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BAILA (balia)

Leggi paragrafo comare e levatrice


BARCAROLO (barcaiolo)

C'è sempre stato un legame profondo tra Verona e il suo fiume anche che si interruppe notevolmente con la costruzione dei muraglioni dopo l'inondazione avvenuta nel 1882. Il fiume Adige è stato in passato molto utilizzato dalle lavandare (lavandaie), dai molinari (mulinai per mulini ad acqua) e dai barcaioli per il trasporto di persone, ma ancor di più delle merci. Lungo le "vie d'acqua" vi era una vera e propria navigazione che collegava i vari paesi e città lungo i fiumi Adige e Po già a partire dal 1100 con delle lotte per il potere e controllo sulla navigazione.

Il trasporto lungo le vie d'acqua permetteva di effettuare dei carichi consistenti, maggiori certamente di quello che si sarebbe potuto fare con un semplice carro trainato dal cavallo. In più si sfruttava un bene già presente e gratuito: lo scorrere naturale dell’acqua.

Questa attività di trasporto fu sostituita dall'avvento della ferrovia e con l’incremento del trasporto su mezzi pesanti (camion).

Numerose ancora oggi le barche e barcaioli che transitano le acque per la pesca di fiume e di lago.

Oggi la navigazione lungo l'Adige e sul lago di Garda è utilizzata per lo più per scopi turistici per il trasporto di gitanti che scelgono di fare un giro in barca per ammirare con calma il paesaggio con il lento scorrere dell'acqua.

Fra le varie canzoni di tradizione orale che narrano di questo personaggio riportiamo di seguito il testo di Son barcaiolo il cui informatore è Giovanni S. classe 1927 di Grezzana (Vr)

Son barcaiol son barcaiolo son de l'arte,
dal cuor dal cuor sono gentile,
su la mia barca se vuoi, se vuoi venire
noi andremo in alto mar.

In alto mar che noi saremo
un bel fuoco acce, accenderemo
e qualche cosa cuci, cucineremo
a l'usansa del barcaiol.

O barcaiol, portème a riva
voglio andar da la ma, la mama mia
io voglio andar da la ma, la mama mia
e a racontarle del mio disonor.

Il disonor l'ò perso in barca
su la sponda de la, de la barcheta,
il disonore l'ò per, lo perso in barca
in compagnia del barcaiol.


BOTARO (bottaio)


L'uva era ed è uno dei principali frutti delle colline veronesi. I vini da essa prodotti sono di ottima qualità e molto apprezzati in Italia e nel mondo. Nel passato il contadino si produceva autonomamente il vino che poi conservava in tini, botti, damigiane e travasava in bottiglie mano a mano che lo doveva consumare.
Il botaro, ossia il costruttore di botti, è un mestiere molto delicato e che richiede tempo perché va a pregiudicare la buona conservazione del vino. Il mastro bottaio deve saper scegliere il tipo di legno da utilizzare (rovere, castagno, ciliegio), per poi tagliarlo in doghe, stagionarlo, assemblarlo attorno ai cerchi di ferro di varie dimensioni per fargli prendere la giusta forma. Il numero delle doghe varia in funzione della capienza della costruenda botte; una raspatrice, il fornello centrale serve per fare quel vapore necessario a rendere il legno più duttile ed elastico alla lavorazione e facilitare la necessaria curvatura delle doghe, ed anche per liberare il tannino dal legno, sostanza che passa facilmente nel vino e lo rende tossico.
Il bottaio con appositi attrezzi e martello deve sistemare per bene le doghe intorno ai cerchi così che le assi prendano la giusta forma e rimangano ben ferme fra di loro senza lasciare buchi, da qui il detto "un colpo alla botte e un colpo al cerchio". Nella parte inferiore della botte viene costruito un foro chiuso dal cocon (tappo) utilizzato per il travaso senza far prendere troppa aria al vino e rischiare di inacidirlo.

 

L'arte magica del bottaio era ed è, per quei pochi artigiani rimasti, quella di far aderire le doghe l'una all'altra, tenerle con i cerchi metallici che venivano poste naturalmente all'esterno aiutandosi con uno speciale attrezzo a forma di scalpello smussato con un lungo manico che si colpiva con un martello. Tutto questo veniva fatto senza l'uso di collanti, con cura e professionalità per realizzare dei contenitori che non facevano perdere il liquido contenuto.


CANTASTORIE

I cantastorie erano dei personaggi erranti che portavano informazione nei paesi di provincia raccontando nei loro spettacoli attualità di cronaca e favole per la povera gente quando ancora non esistevano radio e televisione ed i giornali erano letti da pochissime persone.
Il lavoro dei cantastorie, detti anche saltimbanchi, è un mestiere molto antico e come per i giullari medievali e i trovatori è legato alla tradizione orale.


Erano imbonitori, venditori di versi, personaggi carismatici che con il loro recitar-cantando sapevano richiamare e attirarare la folla facendo affidamento alla curiosità, all'emozione dei curiosi che si radunavano intorno a questi personaggi stravaganti.
Il cantastorie lavorava per vivere, di certo non per arricchirsi. I suoi attrezzi del mestiere sono la sua persona e il suo instancabile estro. Nella sua interpretazione partiva da un canovaccio prestabilito, ma la sua arte era nell'imporovvisare, arricchendo e ampliando la sua storia a seconda della risposta e dell'umore del pubblico.
Gli argomenti di cui spesso narrava erano legati alla cronaca quotidiana, ai vizi e alle sventure, ma non mancavano eventi di cronaca nera oppure cante di sentimenti fra i due sessi con toni a volte drammatici e angosciosi, altre volte invece era scherzoso ricorrendo al sottinseso e al doppio senso con un linguaggio semplice e colorito. Spesso si accompagnavano anche con uno strumento musicale.

Oltre all'aspetto esteriore e alla gestualità molti cantastorie si aiutavano utilizzando un cartellone illustrato, una tela dipinta e divisa in riquadri dove vi erano rappresentati i passi principali del loro racconto.


Durante i loro spettacoli vendevano i "fogli volanti" su cui erano scritti i componimenti della loro cantata. Alla conclusione della recita oltre agli applausi si aspettavano anche qualche moneta in cambio della loro esibizione.

Nelle nostre valli il cantastorie veniva chiamato torototela. Lo si vedeva soprattutto nei mesi invernali, quando cioè la gente aveva più tempo per stare ad ascoltarlo. Dormiva dove capitava, spesso nelle stalle delle famiglie che li ospitava per una notte.

Dalla metà del Nocevento la figura del cantastorie si è molto ridotta, oggi se ne contano poche decine in tutta Italia.


CA
RBONARO (fare carbone)


Il mestiere del ricavare carbone dalla legna è un’attività che si è tramandata fra i boscaioli anche sui nostri monti della Lessinia, ma sono poche le persone che ancora oggi sono in grado di fare il carbone. Fra queste Nello e Giorgio Boschi che ogni anno nella prima settimana di maggio accendono la carbonara a Giazza, frazione di Selva di Progno (Vr) producendo il carbone vegetale necessario per il loro ristorante oltre che per mantenere viva questa tradizione.

 

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La carbonaia viene costruita su un piazzale in piano e ben battuto all'interno del bosco.

Il materiale di partenza è la legna che viene tagliata in varie misure e accatastata in una piramide attorno a dei pali verticali (castelletto) che fanno da camino alla carbonara. I vari pezzi di legna di varie lunghezze e spessore vengono disposti ad arte cercando di non lasciare spazi vuoti, ma permettendo però la giusta areazione durante la combustione. Una carbonara di discrete dimensioni richiede circa 80-100 quintali di legna. Una volta pronta la catasta di legna viene ricoperta da terra e fogliame.

 

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Dall'alto del foro si introducono dei pezzetti sottili di legno di 4-5 centimetri, gli gnocchi, che servono a tenere accessa la carbonaia così che possa covare e consumarsi lentamente. Intanto con l’apposito fumaiolo si fanno dei fori laterali alla carbonaia lasciando fuoriuscire il fumo.
Il carbone si deve cuocere a fuoco lento.

La cottura del legno è un'operazione delicata che richiede esperienza e continua attenzione (giorno e notte) da parte del carbonaro.

Ogni anno sono numerosi gli amici, le scolaresche e appassionati che arrivano a Giazza (Vr) a guardare la carbonara e tenere compagnia alla famiglia Boschi che immancabilmente fa trovare una fetta di salame con la polenta e una tazza di caffè per i suoi ospiti.
Negli ultimi anni viene anche installata una webcam che permette a chiunque è interessato di guardare tutto il procedimento in diretta seppur a distanza di chilometri.

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E' necessaria molta attenzione ed esperienza per tener conto delle numerose variabili che determinano il buon andamento del processo.
Dopo circa 3-4 giorni dall'accensione il carboe è pronto, lo si vede quando la carbonara ha smesso di fumare.

A questo punto si toglie la terra e il carbone prodotto viene steso e lasciato raffreddare per qualche ora per poi essere riposto in sacchi e trasportato in luogo asciutto dove viene conservato fino al suo utilizzo.

 

CAREGHETA (impagliatore di sedie)

La principale attività del caregheta consiste nel rifare la base del sedile delle sedie. L'impagliatore tira, annoda, contorce e intreccia fili d'erba fino a ricavarne un cordone che si allunga mano a mano che procede con il suo lavoro e in base alla necessità inserendo altri fili di paglia e avvolgendo così tutto il sedile fino a ricoprirlo interamente creando delle particolari forme geometriche a rombi o triangoli di diverse sfumature (l'immagine che segue ne mostra un esempio).


Con la sostituzione delle sedie impagliate con seggiole plastificate o imbottite di altro materiale è andato di conseguenza quasi scomparendo il lavoro e la figura del caregheta, oggi è ormai un'arte conosciuta da pochi appassionati.

 


CARETIER (carrettiere)

Il carrettiere l'è un bel mestiere s'ciocar la scuria (schioccare la frusta).... così gridava il carrettiere quando entrava in paese facendo lo spaccone per farsi notare dalle ragazze.
Il carrettiere era un trasportatore di merci. Il carro era fatto di legno durissimo nelle sue parti portanti, legno di leccio, per lo più. Oggi, si vedono solo nei musei della civiltà contadina. Trasportavano di tutto, a secondo delle raccolte e delle richieste. Il carrettiere viveva sulle strade per lo più seduto sul carico che trasportava sul suo carretto, per brevi tratti dormiva viaggiando, perché il cavallo conosceva così bene il persorso che non aveva bisogno della guida del suo padrone.
El caretier non trascurava mai le sue bestie. Le governava, puliva il manto, le gambe, i garretti. Soprattutto stava attento agli zoccoli perché qualche ferro poteva schiodarsi e danneggiare le bestie e senza farmi mancare paglia e avena per tenerlo ben nutrito e in forze. Ogni tanto il carrettiere faceva schioccare la frusta per incitare le bestie a mettersi in cammino.

Il carrettiere di un tempo non aveva padroni e di questo era orgoglioso. Generalmente erano di sua proprietà sia il carretto che il cavallo. La forma di pagamento era quella a viaggio, la retribuzione era pattuita in base al percorso da compiere e al tipo di merce da trasportare.
Il suo era un mestiere pesante e rischioso sia per i tentati furti che per la possibilità di fare un incidente lungo le insidiose e dissestate strade di un tempo. La tipologia del lavoro portava il carrettiere a percorrere le insidiose strade da solo e sono numerosi gli incidenti avvenuti sulle carreggiate sbrecciate della nostra provincia. Ancor più pericolosi negli ultimi tempi quando capitava che i carretti trainati da cavalli o muli si spaventavano incrociando le automobili e con conseguenze spesso mortali.

El caretier partiva la mattina presto, quando era ancora buio, mangiava qualcosa seduto sul carretto e poi la sera, poi quando era di nuovo buio tornava a casa. Durante questi lunghi tragitti alleggeriva la pesantezza della monotonia e la solitudine improvvisando stornelli incentrati sul proprio lavoro o sulla propria ragazza.
Se non riusciva a rientrare entro la notte raggiungeva il più vicino paese per trovare rifugio e mettersi in sicurezza con il cavallo e il carretto. Il carrettiere non si fermava mai, lavorava sotto il sole cocente dell'estate e con l'infuriare della tormenta nei mesi invernali. Ogni tanto si fermava in qualche osteria a bere un bicchiere di vino con la scusa di far riposare il cavallo e par parar zò la polvare.
Spetta loro il pagamento di tutte le piccole tasse di pedaggi e dazi previsti sulla strada fino alla consegna della merce. Non viaggiava mai privo di merce, sarebbe stata una vana perdita di denaro.
Purtroppo questo tipo di lavoro costringeva il carrettiere a stare poco tempo con la famiglia perché doveva lavorare tanto per riuscire a mantenerla.

I carrettieri hanno da tempo abbandonato carro e cavallo sostituiti dai camionisti che con i loro bisonti percorrono veloci le strade di paesi e città trasportando grandi quantità di merci.

Di seguito un canto narrativo che ci ha insegnato Nani salata (Giovanni Salvagno) di Grezzana. Una canzone d'amore dedicata ad un giovane minatore morto nella miniera di lignite del Vajo Paradiso. Il caretiere

Il caretiere è un bel mestiere
s'ciocar la scuria, s'ciocar la scuria
il carettiere è un bel mestiere
s'ciocar la scuria sensa pensier.

E la sente el s'cioco de la scuriada
l'è inamorada, l'è inamorada
la sente el s'cioco de la scuriada
l'è inamorada del caretier.

Ero sul ponte che lavoravo
mai più pensavo, mai più pensavo
ero sul ponte che lavoravo
mai più pensavo al caretier.

Poi giunti i sbiri e la sbireria
a portarmi via, portarmi via
poi giunti i sbiri e la sbireria
portarmi via sensa ragion.

M'anno condoto in una gran sala
dove che stava, dove che stava
m 'anno condoto in una gran sala
dove che stava l'esaminator.

L'esaminatore l'era un bonomo
e un galantomo e un galantomo
l'esaminatore l'era un bonomo
e un galantomo e di gran cuor.

M'à domandato nome e cognome
la patria mia, la patria mia
m'à domandato nome e cognome
la patria mia l'è sul tirol.

La patria mia l'è tirolese
è a cento milia, è a cento milia
la patria mia l'è tirolese
è a cento milia lontan da qua.

Il caretiere è un bel mestiere
s'ciocar la scuria, s'ciocar la scuria
il caretiere è un bel mestiere
s'ciocar la scuria sensa pensier.

CASARO (fare formaggio)


Il casaro è il mastro artigiano della fabbricazione del formaggio. In poche parole segue tutta la filiera e supervisiona l’intera produzione partendo dal latte fresco verificandone la corretta carica batterica e microbiologica, controllando anche l'aspetto igienico-sanitario e conservazione del latte, prosegue poi con la cagliata (e alla sua successiva rottura), formatura, pressatura, salatura e infine stagionatura.
Il caglio, è l’ingrediente principale per la produzione di vari tipi di formaggio e grazie alla sua funzione particolare permette la coagulazione del latte oltre che la separazione del siero dalla sua parte grassa.

Il luogo adibito a fare il formaggio è la casara, ma negli alti prati della Lessinia, dove d'estate vengono portate le mucche, vi è anche un altro edificio che viene utilizzato per fare il formaggio: il baito. Nel caseificio vi è uno stanzone adibito alla conservazione del latte, uno per la lavorazione chiamato el logo del fogo (fuoco) e uno o più locali per la conservazione delle forme di formaggio che vengono riposte su appositi scaffali a riposare e stagionare.

 


Dove invece non è possibile lavorare sul posto il latte passa el lataro (lattaio) a prelevare il raccolto dalla mungitura delle vacche, capre e pecore, oggi con l'utilizzo di moderne autobotti, e lo trasporta nei caseifici del territorio o della pianura per la lavorazione e trasformazione in formaggio.

Con le sue mani esperte e l'utilizzo di appositi attrezzi e macchinari il casaro è in grado di lavorare il latte e con dei precisi procedimenti e ingredienti trasformarlo in burro, ricotta, mazzarella, yogurt e formaggi di vario tipo, stagionatura e misura.

E' compito del casaro anche passare a controllare le forme di formaggio, salarle, girarle per farvi prendere aria, spazzolarli dalla muffa in eccesso e tutte quelle operazioni necessarie finché il prodotto è pronto per essere venduto.

 

COMARE - LEVATRICE (ostetrica) e BAILA (balia)

Fino a circa cinquant'anni fa le donne partorivano normalmente da sole in casa, ancora meglio in camera da letto.
Ai primi sintomi si riunivano tutte le donne della contrada in particolare le più anziane del paese, le comari che sicuramente avevano esperienza nel far nascere figli. I bambini venivano allontanati con una scusa.

Molto raramente si interpellava un medico, soprattutto per le ristrettezze economiche che impedivano di retribuire la sua prestazione.
Quando era possibile si chiamava anche una vera e propria esperta, la levatrice. Giungeva a casa della puerpera a piedi (in mezzo alla neve con stivali e pantaloni), in bicicletta (sulla canna della bici col marito), sul calesse, biroccio, carretto con la sua borsa dei ferri.
La levatrice assiste la donna durante il parto in casa e si prende cura del bambino appena nato, è la "custode" del parto. In linea di massima la levatrice rispettava e non contrastava i riti legati al parto delle comari anche per non creare cariche d’ansia, sensi di colpa, smarrimento nella donna. Le credenze erano parte del vissuto antico, delle tradizioni, della cultura popolare più intima.
Dopo il parto la levatrice si occupava del taglio ombelicale e verificava esternamente che il neonato non abbia difetti e che stia bene. La puerpera doveva stare a letto senza mai alzarsi per 8-10 giorni. La levatrice un tempo era per lo più una donna "praticona".
Dopo il parto le comari iniziavano a fare premonizioni sul neonato per esempio "se l'è nato in pressia (velocemente) el sarà svelto", oppure "se l'è nato de luna dura (calante) el sarà forte de costitussion e de salute" oppure se è nato rovescio (a piedi in giù) oppure in estate o in inverno, "i nati de abril i è boni de comandar, ma no de ubidir" oppure "coei che nasse con i denti i sarà o gran farabuti o gran inteligenti". Per consolarsi se il figlio che è arrivato non era stato voluto si usa dire "fioi e nissoi no i è mai massa" (figli e lenzuola non sono mai troppi).

Spesso sia alla puerpera che al neonato, un paio di giorni dopo il parto, la levatrice somministrava un cucchiaio di olio di ricino perché purificante. Generalmente in occasione del parto viene uccisa una gallina e preparato un buon brodo, alla partoriente però verrà dato solo qualche cucchiaio di brodo (meglio stare leggera), mentre il restante e la carne viene divisa fra la famiglia.

Se la mamma non ha latte spontaneamente il neonato viene affidato per l'allattamento ad un'altra donna che di latte ne ha in abbondanza, non era difficile trovare altre neo-mamme nelle vicinanze. La mamma consegna quindi il figlio alla baila (balia) per il periodo necessario all'allattamento ricambiando come può l'aiuto nel momento di difficoltà. Il neonato diventerà fradel de late (fratello di latte) con i figli naturali di costei. Vi erano donne che facevano la "baila di professione" facendosi pagare in cambio del latte per il neonato... in tempi di grave crisi economica ogni strumento era buono per raccimolare qualcosa.
L'alternativa al latte materno era il latte di capra (ancora non si usava il latte artificiale). Le donne cercavano di allattare il più a lungo possibile, anche per oltre un anno perché fin che te lati no te te ciapi in stati evitando così di rimanere nuovamente incinte.

Un discorso a parte va dedicato alla coarantia cioè al periodo dei quaranta giorni dal parto perché fin che no l'è sta benedia la ga el diaolo a schena ossia finché la donna non riceve la benedizione dopo la quarantena si pensa che sia impossessata dal diavolo e per tale motivo non può né uscire di casa né tantomeno occuparsi delle faccende domestiche. Queste credenze popolari erano comunque utili alla partoriente per lasciarle il tempo di riprendersi e tornare in forze. El mal che se ciapa in coarantìa, e che in coarantìa no 'l vaga ia, no 'l va pì ia (il male che si prende durante la quarantena e che non guarisce in quel periodo non se ne andrà più via).
Trascorso il periodo di coarantia la donna viene accompagnata in chiesa da una donna (spesso dalla suocera) e dai figlioletti più grandi per la benedizione del prete.. Arrivati in chiesa deve attendere sulla porta l'arrivo del parroco per poi essere benedetta davanti all'altare della Madonna con l'offerta della candela. Dopo la benedizione la donna è riammessa nella comunità e può liberamente frequentare altre persone e riprendere la vita di prima.

La levatrice era una posizione di rispetto sociale alla stregua del medico, del parroco e del “spessiàl” (farmacista) del paese. La comare veniva inoltre interpellata anche per eventuali interruzioni di gravidanza.

Molte volte la comare accompagnerà poi il neonato al battesimo facendogli da madrina, una sorta di seconda mamma.

Dal 1888 (Governo Crispi) venne emanata una legge che regolava l'abilitazione alle donne che frequentavano il corso e il successivo esame di ostetrica/levatrice. Queste donne erano quindi più preparate ad intervenire a casa diminuendo notevolmente i casi di mortalità dovute al parto e le infezioni causate dalla mancanza di norme igieniche con l'obbligo di chiamare il medico a casa se durante la nascita vi fossero state delle complicanze per la puerpera o per il neonato. In Lessinia orientale molto note come comari erano la Pulchiria di Velo (la comarona de Velo) e la Lucia di Badia Calavena.
Da molti anni la figura della levatrice domiciliare è pressoché scomparsa, le donne partoriscono quasi sempre in ospedale assistite da personale specializzato fra cui la puericultrice, l'ostetrica (levatrice), ginecologo, infermieri e altre figure sanitarie.

 


FAMEO (famiglio)

Il famiglio era un giovane ragazzo che, a causa delle ristrettezze economiche, veniva inviato a lavorare in cambio di vitto e alloggio, una normalità ai primi del 1900. Un detto popolare dice che se no gh'è farina 'ntel casson gh'è el diaolo 'ntel canton, una fame vecchia, antichissima che pretende la pancia piena. I faméi sono ancora bambini quando si devono staccare dalla loro famiglia e andare presso altre case a fare lavori da grandi. Spesso la trattativa avveniva durante la fiera di San Martino (11 novembre) a Tregnago. Il contratto da faméo prevede di star via di casa fino alla fiera dell'anno successivo, ma a Pasqua qualcuno ritorna a casa per qualche giorno.
Numerosi gli anziani che abbiamo incontrato e che hanno fatto i faméi. I vecchi che hanno fatto i faméi ci raccontano della dura vita nelle case dei padroni, pochi hanno avuto più fortuna e trovato un ambiente sereno.

Ricordiamo la testimonianza di Zenone S. nato nel 1938 a San Mauro di Saline e all'età di 9 anni viene inviato alla Casa Sole a Mezzane di Sotto a fare il mezzadro e andava tutti i giorni a Tregnago con la teleferica del cementificio a prendere il pane bianco per le suore, un alimento che a casa sua non potevano certo permettersi. La sola possibilità di mangiarne, fa di lui un faméo felice. Successivamente è stato a fare el fameo dai fratelli Avesani che lavoravano i campi nel manicomio a San Giacomo a Verona. "Schei (soldi) non ghe no mai ciapà, ma i me daséa da magnare, el saon par lavarme, un vestito e un par de scarpe nove e ogni tanto la domenica mi dava la mancia e finché lui giocava alle bocce io andavo a torme un vassoio de paste".

I racconti di vita si ripetono, ma non sono sempre uguali. La nostra ricerca sui faméi ha incontrato anche chi non ha trovato pane bianco in tavola o una paga anche se minima. C'è chi ha trovato la sveglia puntata alle cinque di ogni mattino e prima di colazione il lavoro in stalla dove el cariolon del luame poteva sembrare un letto odoroso di lissia. Era poco mezzo uovo per colazione e la gallina se la mangiavano tutta il padrone e la sua famiglia. Poi il lavoro nei campi con zappa e badile, e la zerla, più grande di lui.
Qualcuno racconta che spesso gli è capitato di cenare con gli occhi chiusi sul piatto di minestrone tanta era la fatica di tutta la giornata, un piatto solo perché parte del minestrone era destinato all'ingrasso del maiale. Magna, magna te si bon solo de magnar (mangiare). Questo era il complimento migliore per un faméo. Umiliazione dopo umiliazione qualcuno poteva arrivare ad una ribellione silenziosa e candida: una mattina un padrone si è trovato la cantina allagata di recioto profumato e non ha mai capito "come l'a fato el cocon a cavarse dal vesòto".
Dopo un paio d'anni a fare il faméo questi giovani tornano a casa che hanno imparato un lavoro, sono cresciuti in fretta, troppo in fretta per essere ancora dei bambini. Qualcuno di loro si sente già un uomo, ha imparato a lavorare la terra; ora che ha il tabarro sogna un fazzoletto di terra tutto suo, una coppia di buoi, un pollaio di galline, sisoni, anare mute, piti (tacchini), faraone, conigli, un grasso maiale, nell'orto salata, capussi, radeci e verze e chissà magari non dovrà lasciare la sua terra per emigrare in Francia, in Belgio o in America.


FILANDERE (filatrici e baco da seta)

Per tanti secoli i cavalèri (i bachi da seta) furono considerati una vera e propria ricchezza e fonte di reddito per tante famiglie contadine di molte zone d’Italai, anche nella zona orientale del veronese. I contadini misero a dimora una grande quantità di moràri (gelsi) intervallandoli nei campi con le viti, oppure lungo i fossati. La foglia dei moràri era l'alimento principale dei bachi da seta.
L'allevamento del baco da seta si sviluppò velocemente nel mondo contadino anche perchè impegnava le persone in primavera, periodo in cui l'agricoltura assorbiva meno energia.

L'allevamento dei cavalèri iniziava nel mese di aprile (tradizionalmente il giorno di san Marco, il 25 aprile) e per farli crescere venivano alimentati con le foglie dei gelsi ogni tre ore, giorno e notte. Nei primi venti giorni dalla loro nascita stavano in cucina, dopo si portavano in camera da letto dei ragazzi o nel granàr (granaio), ovvero in ampie stanze ben chiuse e calde, dove erano coperti con paglia e bastoni raccolti durante i mesi invernali sopra a lettiere e graticci.


Nei primi giorni di maggio cominciavano a nascere i bruchi, ma non tutti contemporaneamente.
Si stendeva un foglio di carta bucherellato sopra cui i bachi schiusi salivano attraverso i buchi, affamati de la foia dei morari (foglie dei gelsi). Poi per trenta/quaranta giorni l'intera famiglia era occupata ad alimentarli. Dovevano essere abbondantemente nutriti in continuazione con foglie fresche, non bagnate e ben tritate, tranne che durante le “dormite”, e dividevano in età il periodo larvale del baco da seta. Le dormite erano dette: “de la prima”, “de la seconda", “de la tersa”, “de la coarta” o “de la grossa”. Nella quinta età che dura circa 8 giorni i bachi diventavano voracissimi e bisognava somministrare loro la foglia sei volte al giorno. Dopo la quarta muta (ovvero nella quinta età) il baco è pronto per avvolgersi nel suo bozzolo di seta (in gergo si dice anche che il baco "sale al bosco") costruito attorno a rametti secchi.
La bava sottilissima a contatto con l'aria si solidifica e si dispone in strati formando un bozzolo di seta grezza, costituito da un singolo filo continuo di seta di lunghezza variabile fra i 300 e i 900 metri. Il baco impiega 3-4 giorni per preparare il bozzolo formato da circa 20-30 strati concentrici costituiti da un unico filo ininterrotto.

La larva allo stato adulto raggiunge i 9 centimetri e supera i 4 grammi. Ai primi di giugno i bachi (galete) erano pronti per la raccolta, perciò la famiglia, con qualche aiutante, si disponeva attorno ai bozzoli e iniziava a staccarli e separarli in diversi gruppi, i bianchi, i gialli, quelli macchiati e quelli incompleti, ai quali corrispondevano prezzi diversi legati appunto alla qualità del baco da seta.
Una buona raccolta era una festa per la famiglia, dai bozzoli venduti si ricavava un discreto gruzzoletto di soldi che andavano a rinfocillare le misere casse di casa.

Solo una piccola quantità di bozzoli arrivava a completare la metamorfosi, quando il bruco si trasforma in crisalide e poi in farfalla che uscirà dal guscio per deporre le uova. Per uscire dal bozzolo la farfalla fa un foro rendendo così il filo di seta di seta inutilizzabile.

Dalla metà dell'ottocento la produzione di seta viene prodotta sempre meno a livello casalingo, ma nelle filande (fabbriche che lavorano la seta). All'inizio le filande non erano che edifici di campagna di proprietà del padrone della terra nei quali si lavorava solo d'estate. Con lo sviluppo industriale le filande divennero numerosissime, spesso in mano agli stessi mercanti di seta. La manodopera era fatta di giovani ragazze per lo più contadine che per arrotondare il magro bilancio della famiglia, accettavano situazioni di lavoro pesantissime, dalle undici alle quattordici ore giornaliere, in condizioni igieniche spesso malsane e con salari bassissimi.

 

Nelle filande si provvedeva al soffocamento dei bachi mediante stufatura in forni statici o girevoli. L'immersione in acqua bollente permetteva il dipanamento del filo di seta sciogliendo parzialmente lo strato proteico di sericina che avvolge il filo di seta.
La filanda apriva alle sei e mezzo del mattino, con il fischio della sirena, perché bisognava dare tempo alle lavoratrici di andare a "messa prima". Nello stanzone l'acqua bollente era pronta in due file di recipienti di rame, catini profondi e vaschette larghe e basse. Alla prima fila lavoravano le "scoarine"(le piccole scopettaie): buttavano e toglievano velocemente e senza distrarsi i bozzoli nell'acqua con il mestolo forato. Quando il calore cominciava a disfare i bozzoli, le "scoarine" li gettavano nella bacinella di fronte, dell'altra fila, dove la "tacarina", mettendo le mani nell'acqua bollente, afferrava rapidamente il bandolo. Era un filo esilissimo, lungo seicento metri, che andava unito a tanti altri prima di potere formare il filo di seta della matassa, di un colore dorato intenso. Questo filo, attraverso un congegno apposito, giungeva in un'altra stanza: qui una decina di donne più anziane controllava che non ci fossero impurità o nodi e preparava le balle di matasse da un quintale che venivano deposte in casse. Lavoravano tutte ininterrottamente, salvo un breve spuntino, per oltre dieci ore con le sorveglianti alle spalle che urlavano se il filo si rompeva o se il ritmo rallentava. Il peggio però era il dolore alle dita: la pelle si cuoceva per le mani sempre nell'acqua bollente.
Ed ecco ottenuta la seta greggia bianca o gialla o dei colori dei bozzoli. Il filo grezzo così ottenuto viene nuovamente fatto essicare per essere in seguito avvolto sui fusi. Questi aspi non erano fissi, ma giravano a circa 70 – 80 giri al minuto, e venivano poi immersi nuovamente in acqua alla temperatura di circa quaranta gradi. Qui la seta macerava, poi le filandine legavano con nodi piccolissimi i fili eventualmente spezzati. Alla fine le matasse venivano poste nella Sala della seta dove venivano pulite e confezionate per esser vendute alle industrie per confezionare tessuti, indumenti intimi, calze, fazzoletti, broccame vario.

Da molti anni è ormai scomparsa nelle famiglie veronesi la coltivazione del baco da seta.


GELATARO (gelataio)

Il carretto passava e quell’ uomo gridava gelati: così iniziava una canzone di Lucio Battisti del 1972. Infatti i venditori ambulanti generalmente passavano attraverso le strade più importanti di Verona e al suono di una trombetta o di una campanella alternavano il loro grido: gelati, gelati! L’attività di venditore ambulante di gelati risale agli inizi del XX secolo.

Nel gelato artigianale l'ingrediente presente in maggiore quantità è il latte seguito dagli zuccheri e dalla panna cui vengono aggiunti i diversi ingredienti che ne danno il gusto per esempio frutta, nocciola o cioccolato, ecc.

Un tempo i gelati si preparavano con la neve, o meglio, con il ghiaccio. Nella stagione estiva e durante le feste religiose si era soliti vedere il carretto del gelataio, posizionato in una strada centrale del paese, che serviva i suoi prodotti ai piccoli golosi e agli accaldati avventori. In molti ricordano ancora la sagra paesana e il venditore di granatine che prendeva da un secchio il ghiaccio che grattava con la grattacasola riempiendo un bicchiere in cui poi versava qualche goccia di sciroppo alla menta o amarena, era davvero un'occasione speciale, una festa per grandi e piccini.

Nella campagna molto raramente si poteva incontrare un gelataro, per mangiare il gelato si doveva aspettare di andare in città. Il gelataro girava con un carretto poggiato su una specie di bicicletta nelle quali vi erano delle grandi vaschette contenenti il gelato o meglio le creme, sotto vi era la vasca con il ghiaccio. La sua arte stava anche nel mantenere la temperatura costante del gelato per evitare lo scioglimento dello stesso o la formazione di ghiaccioli, al tempo non esistevano ancora i frigoriferi.

Il carretto del gelataro era fornito anche di caramelle, pesciolini di liquirizia, lecca-lecca, per attirare l’attenzione dei ragazzini e in alcuni periodi dell’anno vendeva anche frutti di bosco, soprattutto corbezzoli, che preparava in cartocci di carta spessa, sagomati a forma di cono. Era un tipo simpatico e spesso inventava battute, modi di dire o brevi proverbi e storie gioiose rigorosamente in dialetto, che avevano lo scopo di richiamare e invogliare i passanti all’ascolto solleticando i loro palati all’assaggio dei suoi gustosi prodotti.


GIASSAROI e GIASSARA (ghiacciaia)


I montanari della Lessinia, spesso costretti a vivere nella miseria per poter sopravvivere ed incrementare le magre entrate domestiche sfruttarono il freddo dell’inverno con la preparazione del ghiaccio per agevolare coloro che in pianura ne avevano bisogno durante l’estate: le macellerie, le botteghe di generi alimentari, gli osti, i gelatai, i pescatori che dovevano conservare il pesce per qualche tempo nelle barche, i pescivendoli, gli ospedali, e altre attività per la conservazione delle merci.
Per sfruttare questo freddo, crearono un’industria del ghiaccio naturale, contro quella del ghiaccio artificiale, troppo costosa per quei tempi. Costruirono innanzitutto delle giassàre cioè dei manufatti in pietra, a forma di pozzo, scavati nel terreno, murato internamente, dentro il quale, durante l’inverno, si introduceva la neve oppure il ghiaccio, quest’ultimo asportato, giorno dopo giorno, dalla superficie gelata di una vicina pozza d’acqua piovana che, di norma, si abbinava sempre alla “giassàra”.
Ecco perché il detto: Na giassàra mantien na fameia (una ghiacciaia mantiene una famiglia).

I giassarói tenevano continuamente d’occhio le pozze dell’acqua piovana. Esse venivano puntualmente pulite, durante l’estate, prima che cominciassero le piogge e i freddi autunnali. Quando poi avevano certezza che si era formato un certo spessore di ghiaccio, con degli appositi attrezzi da loro inventati, contrassegnavano la superficie dello stagno con dei riquadri, solcavano lo spessore con delle scuri molto affilate, lo tagliavano in lastre regolari lunghe e larghe 80 centimetri, lo spessore, invece, variava in base alla temperatura. Ottenevano così dei lastroni che una volta tagliati, venivano arpionati e tirati sull’acqua fino al limite della pozza con dei ganci forniti di manici di legno.
I blocchi trascinati fin sulla porta della ghiacciaia erano calati sul fondo, dove el giassaról li sistemava a strati coprendoli poi con le foglie raccolte nel bosco o con paglia (ogni strato era detto solàro). Una volta raggiunto l’immagazzinamento voluto, il deposito era coperto da una solida massa isolante costituita da fascine di legna, foglie, pula di frumento e pietre. La ghiacciaia veniva ermeticamente chiusa in modo da impedire ogni cambiamento di temperatura tra l’esterno e l’interno.
La piccola porta rivolta generalmente a nord era l'unico accesso ed una scaletta interna portava giù fino al livello superiore del ghiaccio, spesso alcuni metri. D’estate, i carrettieri caricavano quei prismi di ghiaccio, li coprivano per bene con lenzuola, sacchi e quant’altro poteva proteggerli dal caldo e partivano nelle prime ore dopo la mezzanotte con i loro carretti cercando di raggiungere la città prima del levar del sole.

 

La giassàra del Grietz o "Gries", come viene denominato in dialetto, si trova nella omonina contrada di Bosco Chiesanuova all'interno del parco della Lessinia. E' stata costruita intorno al 1870 da Innocente Menegazzi di professione "murador" (muratore) che abitava in contrada Sponda. Questa giassara è tra le più belle ed originali della Lessinia soprattutto per la morfologia dell'appice di copertura, cioè il tetto che si presenta slanciato e spiovente in laste di pietra.

 

Le giassare generalmente hanno due "bocàre" (aperture): la più bassa per riporre i blocchi di ghiaccio che si estraevano dalla pozza, l'altra a livello della strada per caricare il ghiaccio direttamente sulle carrette e portarlo in città.
Al suolo, davanti alla "bocàra", c'è una pietra su cui poggiava il "fusel" dell'argano con cui si tiravano sù i blocchi di ghiaccio. Le dimensioni della pozza sono ridotte rispetto alle giassare di media-bassa montagna in quanto data la quota l'acqua era soggetta ad un più rapido congelamento.
La giassàra del Gries di Boscochiesanuova è divenuta oggi un importante punto didattico esplicativo dell'attività delle giassàre della Lessinia del passato.


LATARO (lattaio)

El lataro (lattaio) faceva il suo giro quotidiano per le case, di buon mattino, per consegnare il latte fresco a domicilio. I ritiri del latte li effettuava la mattina presto, appena munto dalle vacche delle stalle vicine e poi partiva per le consegne a domicilio. Girava con un carretto o in bicicletta con appesi ai lati i bidoncini di latta contenenti il latte da distribuire... chi ne comprava un litro, chi mezzo, chi un quarto, non tutti si potevano permettere di acquistare quotidianamente il latte.

Annunciava il suo arrivo con grida o col suono del campanello della bicicletta. Davanti alle porte che lui sapeva, fermava il carretto o la sua bicicletta, che appoggiava sul cavalletto o al muro di casa, riempiva la bottiglia o i recipienti che aspettavano in bella mostra davanti alla porta, risaliva in bicicletta e via, verso un’altra casa. Talvolta c’era qualcuno ad aspettarlo con il contenitore in mano.
Il travaso dai bidoni metallici alle bottiglie era il momento più delicato, guai a sprecarne anche una goccia.
Il latte appena munto era caldo. Lo si beveva anche così. Si versava lentamente in un recipiente ed era bianco, morbido e di un profumo intenso, naturale. Il latte giungeva nelle case direttamente dalla stalla e quindi non sterilizzato per questo le donne lo facevano bollire per bene e in superficie si formavano due dita di panna densa e prelibata.

Quello del lattaio era un mestiere d'altri tempi, molto importante, ma anche molto faticoso. Il lattaio che girava per i paesi aveva la pelle screpolata, escoriata dal freddo e dai lavori nei campi e nella stalla. Le sue dita erano gonfie di stanchezza e dal gelo d'inverno e dalle levatacce ogni mattina prima del sorgere del sole.

Con il passare del tempo l'industria del latte si è fortemente sviluppata ed ha fatto scomparire il lattaio che consegnava il latte a domicilio. Ora il latte lo si vende insieme a tanti altri prodotti nei supermercati, in diverse versioni, in base alla propria preferenza: intero, parzialmente scremato, scremato, pastorizzato, UHT, senza lattosio, a media o lunga scadenza, nella bottiglia di plastica o nel tetra pak, ce n'è per tutti i gusti, ma non ha il sapore di quello che veniva consegnato a domicilio dal lattaio.


LAVANDARA (lavandaia)

La lavandara (lavandaia) era la donna che lavava la biancheria degli altri. Di tale servizio ne usufruivano le famiglie benestanti che potevano permettersi di pagare. Di solito il lavoro veniva svolto da vedove o donne che non avevano di che vivere. Il lavoro veniva eseguito lungo i corsi d'acqua, nei lavatoi pubblici ed anche nelle fontane.

Prima dell'arrivo delle oderne lavatrici i panni venivano lavati solo a mano. Lavar le robe (fare il bucato) era un affare serio in quanto richiedeva molta fatica e molto oio de gombio, le donne erano quasi sempre inginocchiate con le mani costantemente nell'acqua. Non esistevano detersivi e ammorbidenti già pronti, bisognava produrli autonomamente. Due tre giorni prima di quando si stabiliva di fare l'operazione di lavaggio, si metteva da parte della cenere del focolare che veniva riposta in un bidone in metallo che si riempiva con dell’acqua. Dopo un paio di giorni il bidone si poneva sul fuoco e l’acqua contenuta veniva fatta bollire, ottenendo così la lìssia che costituiva il detersivo del passato. Il sapone si produceva cuocendo il grasso del porsel (maiale), profumato con fiori di lavanda o alloro e poi versato negli stampi di legno e fatto raffreddare fino all’indurimento. Solo in tempi più moderni si aggiungeva anche la soda caustica. Lo stesso sapone veniva utilizzato anche per l’igiene umana, cioè per lavarsi.

Fare la lavandara consisteva nell’andare nelle case signorili a recuperare i vestiti, caricarseli in spalla o nelle ceste e portarseli al fiume per poi tornare i giorni successivi a restituirli lavati e stirati e riscuotere qualche moneta. Nelle contrade e nei piccoli paesi di campagna erano invece le donne di casa a lavare i panni della propria famiglia. Molto nconosciute le lavandare di Avesa, frazione vicina a Verona che già dal 1500 andavano lungo il fiume Lorì per lavare il bucato, ancor oggi a testimoniare questa attività è la presenza di numerosi lavatoi.

Lavare i panni era un vero e proprio rito. Il bucato più piccolo veniva lavato circa una volta la settimana, mentre la biancheria più grande come le lenzuola venivano cambiate e lavate due-tre volte l'anno, generalmente in primavera e in autunno.
La fase di preparazione iniziava con la raccolta dell’acqua dai pozzi o dalle fontane e veniva posta in contenitori di metallo e fatta bollire sul fuoco. Una volta che l’acqua raggiungeva l’ebollizione si aggiungeva la cenere vegetale rimestando di tanto in tanto fino a creare un liquido di color grigiastro, denominato lìssia cioè la liscìva. Questo composto era particolarmente grasso ed aveva un forte potere pulente. Dopo la produzione della liscìva iniziava la prima parte della pulitura: sopra la biancheria, che veniva disposta dentro na brenta o un mastèl si riponeva una sorta di telo che aveva la funzione di fungere da filtro in quanto la cenere non doveva toccare i panni che venivano lasciati in ammollo in questa poltiglia per una notte. I panni tuttavia non dovevano assolutamente essere a contatto diretto con la lìssia bollente; il motivo era evidente, il contatto con la lisciva bollente avrebbe avuto un effetto di cottura dello sporco e le macchie si sarebbero fissate non riuscendo più a toglierle in seguito. I panni venivano poi coperti da una serie di assi di legno per evitare che il liquido si raffreddasse. L'acqua sporca, dopo un po', cadeva da un foro posto sul fondo delle vasche e finiva nel secchio. Questa operazione veniva ripetuta finché l'acqua caduta non fosse stata limpida. La biancheria veniva lasciata in ammollo per tutta la notte, per poi essere sfregata con il sapone il giorno seguente su un’apposita tavolozza in legno che in dialetto viene chiamata l’asse da lavar le robe. Le donne lavavano i panni al fosso o nella fontana dove strofinavano col bruschin e sbattevano gli indumenti parecchie volte fino a renderli puliti facendosi venire anche i diaoleti (geloni) alle mani o dei tagli causati dalla soda caustica.

 

Il bucato veniva poi steso ad asciugare al sole. Una volta asciugata la biancheria veniva diligentemente stirata con il ferro da stiro alimentato dal calore della carbonella e riposta nella cassapanca o nell’ armàro (armadio) poiché doveva durare il più possibile.

I lavatoi costituivano dei veri e propri punti di socializzazione per le massaie, che qui si scambiavano consigli e pettegolezzi, partecipando alle gioie ed alle digrazie le une e delle altre.

E anche su questa attività l'estro e la fantasia popolare non è mancata, sono molti i canti narrativi che si sono tramandati fra valli e città d'Italia, fra questi alcuni sul tema la pesca dell'anello. Di seguito la versione veronese da noi raccolta "La bela la va al fosso"

La bela la va 'l fosso
(rit) ravanei, remolas, barbabietole, spinas,
tre palanche al mass tre palanche al mass

la bela la va 'l fosso va 'l fosso a resentar
e va 'l fosso a resentar.
E intan che la resenta …
E intan che la resenta a gh'è cascà l'anel
si a gh'è cascà l'anel.

La sbassa li occhi a l'onda …
La sbassa li occhi a l'onda la vide un pescator
e la vide un pescator.
O pescator dell'onda …
O pescator dell'onda pescatemi l'anel
su pescatemi l'anel.

E qoan l'avrai pescato …
E qoan l'avrai pescato un regalo ti farò
si un regalo ti farò.
Andremo su pei monti …
Andremo su pei monti, pei monti a far l'amor
su pei monti a far l'amor.


LEVATRICE (ostetrica)

Vedi capitolo COMARE


MARANGON (falegname)

Il nome è legato all'attività del falegname, il "maestro d'ascia" che in dialetto viene appunto detto marangon. Il falegname è uno dei mestieri più antichi perché il legno era uno dei materiali più usati per costruire carri, utensili per lavorare i campi, telai, attrezzi da lavoro, allestimenti navali. Oltre a queste opere più grezze l'artigiano ha iniziato col tempo a costruire porte, finestre e mobili per la casa sino a creare opere meravigliose.

Le case di cento anni fa nelle nostre campagne erano molto spartane e semplici: in cucina c'erano il tavolo, le sedie, la madia e una vetrinetta per le poche stoviglie, in camera solo il letto e il baule che conteneva i pochi indumenti, qualche volta l'armaron (armadio) a due ante.


Prendere una tavola, studiare come vada tagliata, osservare le venature tutte diverse e ricavarne l'ggetto più appropriato in base anche al tipo di legno era un'arte che richiedeva abilità. El marangon svolgeva la sua attività presso la bottega artigianale utilizzando pochi attrezzi (non macchine) quali trapani manuali, seghe, pialle, martelli, chiodi, raspe e le sue mani. I lavori di questi artigiani erano modesti e per lo più di semplice fattura perché richiesti da persone con limitate possibilità economiche.

Ormai siamo abituati a comprare mobili in serie ma c'è ancora chi produce artigianalmente mobili di alta qualità: curati nei minimi particolari e costruiti solo con legni pregiati, quali il noce, il castagno, il ciliegio, ecc.


MAS'CIARO, MAZZIN (norcino)

Nel mondo contadino di un tempo il maiale costituiva un'importante ed essenziale risorsa per la famiglia, era l'alimento proteico principale del quotidiano companatico.
Di norma il maiale veniva acquistato in inverno, nel mese di gennaio o febbraio, al massimo a marzo, pesava circa una ventina di chilogrammi e veniva rinchiuso in un angolo della stalla al caldo fino circa a maggio, poi lo si allevava all'aperto nel cortile di casa o vicino alla concimaia.
El mas'cio veniva nutrito con un paston (pastone) molto energetico formato dalla scota (lo scarto della lavorazione del latte), polenta, suendro (crusca di frumento), scorze di patata, verdura, frutta e dai pochi scarti che la donna di casa non riusciva a utilizzare.
Il maiale cresceva e ingrassava a vista d'occhio arrivando a superare i 200 Kg. e verso Santa Lùssia (13 dicembre) giungeva il momento della macellazione che da noi nel veronese si dice copàr el porsèl o fàr su el mas'cio.
Bisognava prestare attenzione a non uccidere il verro (maiale maschio) quando l'era in calor ossia nel periodo riproduttivo altrimenti la carne e gli insaccati oltre ad avere un pessimo gusto sarebbero avariati velocemente.
Individuato il giusto periodo si chiamava el mas'ciaro, cioè il norcino, che aveva il compito della macellazione del maiale e della lavorazione delle carni.

Il giorno destinato a copàr el porsèl tutti si alzavano al mattino presto e i ragazzi potevano stare a casa da scuola, tutti erano impazienti di
vivere quel rito antico, di serenità e di gioia. Far su el porco era un fatto di fondamentale importanza nella vita rurale di una volta, sia perchè da esso dipendeva in buona misura la disponibilità di grasso e di insaccati per scampare l’inverno, sia perchè era una delle rare occasioni nelle quali si poteva finalmente stare a tavola senza preoccupazioni e fino alla sazietà.

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Il norcino con autorità e con toni secchi ed imperativi, controllava e officiava secondo una esperienza maturata nel corso di tanti anni, attento ad ogni passaggio, pronto a sollecitare il lavoro, controllando modalità e scelte della concia e della pugnatura dell'impasto del salame. Si faceva aiutare nella pelatura del maiale, nel lavaggio dei budelli, nella manovra del tritacarne (fino a poco tempo fa avveniva manualmente), per la riduzione delle carni in pezzi grossolani, per la legatura e la foratura degli insaccati ed altre operazioni minori. Erano in ballo il suo onore, reputazione, notorietà e da queste dipendevano la possibilità di futuri ingaggi.
Al momento dell'uccisione del maiale i ragazzini venivano allontanati con il compito di andare a prendere el cura rece nelle varie famiglie, poste spesso anche ad una certa distanza. Finito il giro i ragazzi tornavano con un sacco che a loro insaputa conteneva invece delle pietre del cui contenuto si sarebbero accorti solo nel momento della consegna rimanendo delusi e a bocca aperta dinanzi alla derisione degli adulti presenti.

Per uccidere la bestia il norcino affondava con rapidità e sicurezza un coltello lungo e sottile sotto il collo e con un colpo maestro tranciava di netto l’arteria carotidea per far uscire rapidamente tutto il sangue. Una donna raccoglieva il sangue dell'animale rimestandolo continuamente, perché non coagulasse e non si formassero grumi. Dal sangue, mescolato con farina di grano, zucchero e uva passa si sarebbero poi ricavati i brigàldi o brigàldoli, le morète e i sanguinacci.
Una donna accendeva il fuoco e controllava che l'acoa dentro el paroloto (paiolo) fosse sempre bella calda, perché poi serviva per togliere il pelo del maiale e per lavare i buei (budella) utilizzati perinsaccare. I budelli venivano subito lavati più volte, ripassati con acqua ed aceto e nuovamente lavati, tagliati per la lunga alla giusta misura e dati alle donne per la cucitura.

La bestia viene stesa su delle assi, si raccoglie il sangue e subito dopo la pelle viene sbollentata con acqua calda e raschiata con la raspa o la lama del coltello per togliere le setole che non devono essere tagliate ma estirpate.

Una volta ammazzato e dissanguato l'animale viene tagliato in due meséne così chiamate, perché sono la metà del corpo di un maiale già spellato, sventrato, pulito dagli intestini e venivano appese alle travi e lasciate lì per qualche ora per essere successivamente tagliate in pezzi per fabbricare i salumi e altri insaccati. Nel frattempo tutti si ritiravano in cucina a consumare un'abbondante colazione, perché quello era un giorno di festa. Un piatto tipico sono le frattaglie del maiale (fegato, polmoni, cuore, reticella) cotte in padella con la seola (cipolla), il cosidetto fegato alla veneziana, solo chi lo ha mangiato può comprendere la bontà di questa pietanza.

Poi si ricominciava il lavoro, le meséne vengono portate dentro e deposte su un tavolo e il mas'ciaro dopo aver staccato la cotenna dalla parte grassa del lardo e della pancetta, tagliava subito alcune braciole, di due/tre costole ciascuna, a seconda della famiglia o del personaggio cui erano destinate, le carni sono tagliate in strisce e macinate.
Lo stomaco del maiale avrebbe fornito delle trippe di eccezionale sapore e delicatezza. La sugna (grassi interni) veniva conservata e utilizzata in inverno per ungere gli scarponi, le sgàlmare oppure come strutto al posto dell’olio. Dal grasso si ricavavano i brùstoli o cìcioli, un cibo più che saporito che andava mescolato con la farina nelle focacce che si cuocevano sulla base del focolare, ben ripulito.

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El mas'ciaro preparava poi la consa (concia), la cui ricetta è un segreto professionale del quale erano gelosissimi custodi e che non confidavano a nessuno. Le carni magre e le parti grasse (circa un terzo delle prime) venivano macinate, sistemate in un largo contenitore di legno detto mésa, pesate, conciate diversamente per salami e cotechini, e poi pugnate cioè lavorate lungamente con le nocche delle mani chiuse, finchè la massa diventava via via più compatta. La prova che era pronto la si verificava quando un po’ dell’impasto sbattuto nel palmo e poi capovolto, restava attaccato alla mano. Era pratica consueta non salare troppo l’impasto e per capire quanto sale si doveva ancora eventualmente aggiungere, si metteva un poco di pesto in un tegame, lo si cuoceva sulle braci e tutti i presenti lo assaggiavano. Era più che altro una scusa per mangiare un boccone assieme e bere un goccio di vino. Questo impasto si chiama tastasal e viene utilizzato anche come condimento per un ottimo e saporito risotto.
Grande attenzione viene posta agli strumenti di lavoro ed in particolare ai coltelli ed alla macchina per tritare le carni, la carne deve essere infatti ben tagliata e non maciullata.
L’insaccatura va fatta con molta cura per non lasciare all’interno bolle d’aria che farebbero marcire tutto. Dopo la legatura, che consiste nel fare passare sopra le corde messe per la lunghezza, per sostenere il peso del salame, si prosegue con una serie di cappi disposti trasversalmente, segue la fase della foratura. Quando i salami sono pronti da appendere, proprio per evitare questo pericolo, vengono comunque tutti punzecchiati a fondo con il forino.
Oltre ai salàdi (salami) viene preparato un apposito impasto con la carne insaporita nella giusta proporzione con le spezie, aio (aglio) e sale e si producevano i codeghìni (cotechini) che ben si accompagnano con la pearà, tipica salsa veronese a base di pane raffermo grattuggiato, pepe, brodo e miola (midollo).
Le coppe invece sono fatte con la carne del collo cosparsa generosamente di un trito di pepe, sale, cannella, aglio, chiodi di garofano e poi tenute in un recipiente adatto per 4 giorni, rivoltate due volte al giorno ed infine insaccate nelle pelli della sugna. La pancetta, è condita con la stessa ricetta del salame più una pizzicata di cannella o pepe.
La lingua, aromatizzata, mista a pasta di salame, veniva insaccata nel "buel drito"(intestino retto) e legata come il salame.
Del maiale non si scarta nulla, le massèle (mascelle) con la miòla (midollo in esse contenuto) venivano conservate nel sottoscala per medicare traumi e contusioni, le setole si davano al marsàro (merciaio), le onge (unghie) venivano usate dai ragazzi a mo’ di nacchere.
E a questo punto terminava la giornata della macellazione del porsèl.

I salami, le pancette, le coppe ed i cotechini vengono disposti sul baldachìn cioè legati sopra una impalcatura che si fissa al soffitto della cantina. É il trofeo della famiglia, che tutti ammirano con occhio compiaciuto.

Dopo circa una settimana si mettono in cantina.
E' importante che la cantina dove devono essere appesi e conservati gli insaccati abbia un grado di umidità e temperatura costante e che sia molto fresca anche in periodo estivo. Il pavimento ideale della cantina è quello costituito dalla sola terra o quello fatto di mattoni. Gli insaccati devono essere controllati spesso per evitare che si guastino. Bisogna evitare che si tocchino fra di loro, verificare che non facciamo i vermi (camole), che il budello si secchi troppo o che diventi umidiccio e ogni tanto vanno spazzolati per togliere la muffa.

Con l'accrescimento del benessere collettivo, delle raccomandazioni della medicina sui pericoli del colesterolo "polistirolo", dei "tricicli" cioè dei trigliceridi e della modifica di tipologia delle abitazioni ormai prive della storica e fresca cantina, la pratica de far su el mas'cio in casa si è andata sempre più riducendo. Oggi si va al supermercato. Il maiale non è più considerato come prezioso sussidio alimentare da lesinare con parsimonia per farlo durare più a lungo possibile, ma occasione di vivaci incontri amicali, di feste e sodalizi.


MEDIATOR o SENSARO (mediatore, intermediario)

ll sensaro detto anche mediator è quella persona che, dietro compenso, cerca di convincere due parti a combinare un acquisto per esempio la vendita di una vacca, di un campo, per un contratto di lavoro, ma anche per combinare matrimoni.

In ogni paese vi è almeno un mediatore, un intermediario che si prende l'impegno di contrattare, tirando sul prezzo di una merce finché non riesce a strappare l'accordo fra le due parti facendogli stringere la mano. La contrattazione durava per ore, a volte anche per giorni. Spesso avveniva durante il mercato settimanale. Un tempo gli accordi venivano stipulati verbalmente e siglati da un sonora schiaffo di mani o da una stretta di mano, non vi era bisogno di andare dal notaio. Dopo l'affare immancabilmente ci si spostava all'osteria per bere un bicchiere di vino.


MISTRO (ferramenta)

 


MOLETA (arrotino)

El moleta è fra le figure più rappresentative nel mondo dei mestieri ambulanti.

Il moleta deve il suo nome all'arnese principale del suo lavoro: la mola (pietra abrasiva), una ruota che girava in base alla velocità con cui l'arrotino pedalava e su cui appoggiava la lama di un coltello o altri arnesi per affilarla (arrotarla) e assottigliarla. Il moleta gussa (aguzza) ferri da taglio come coltelli, forbici, rasoi, attrezzi che spesso vendeva per arrotondare i suoi guadagni.

 

Questo lavoro originariamente veniva svolto con un trabiccolo a ruota, una sorta di bicicletta, molto pesante e ingombrante su cui era montata la mola. Sopra la mola vi era collocata una scatola piena di acqua e un rubinetto che gocciolando continuamente impediva alle lame da affilare di diventare troppo calde. A lavoro terminato restituiva gli utensili affilati come rasoi.


MOLINARO (mugnaio)

Il grano e la farina da esso ricavato sono sempre stati alla base dell'alimentazione dell'uomo. Schiacciando e pestando le varie granaglie si ricavava la farina da cui poi si produceva il pane. L'uomo ha imparato a ricorrere all'utilizzo di mezzi meccanici costruendo prima i mulini a braccio (spinti dalla forza dell'uomo o degli asini) e successivamente i mulini ad acqua.
I mulini da grano ad energia idraulica sorgevano numerosi un po' in tutto il veronese, ovunque vi fosse un corso d'acqua, un torrente o un fiume. Il mulino a legno era un'ingegnosa macchina quasi totalmente costruita in legno (ingranaggi compresi). Esternamente era costituito da una grande ruota verticale di legno che produceva forza ed energia e le cui pale a cucchiaio giravano con la potenza dell'acqua che vi scorreva sotto. All'interno vi era una grande struttura di scale, colonne, tele e una mola racchiusa nella sala macchine su cui venivano schiacciate le granaglie ricavandone poi le varie farine. All'interno del mulino vi era anche una zona per il carico e lo scarico merci.
A Verona lungo l'Adige vi erano i molini natanti che venivano posizionati su grandi imbarcazioni piatte.

Il molinaro era una professione molto ambita in quanto redditizia. Il mugnaio era preposto all'attività del mulino, ma raramente ne era anche il proprietario. I mulini erano proprietà dei Signori del ceto borghese. Il contadino ha il grano, ma le macine le ha il mulinaio e quindi è proprio quest'ultimo ad avere la meglio. Finché c'è bisogno di pane, c'è bisogno del mugnaio, era questa la forza dei mulinai.
Un proverbio infatti ci ricorda che in casa molina non manca polenta e farina.

 

Chi va al mulino s'infarina.
Il molinaro invatti era sempre imbrattato di p
olvere e farina sia negli abiti che sulla pelle, tanto da sembrare un fantasma.

Il mulino era un servizio sociale che doveva essere assicurato a chiunque ne avesse bisogno. La gente doveva affidare il loro piccolo tesoro di grano a questi uomini avidi e spesso imbroglioni sperando che tornasse nelle loro case tutta la farina ricavata dalla macinazione. Molte le riserve e i sospetti che si insinuavano a tale riguardo fra la popolazione. A poco sarebbe valso cambiare mugnaio, infatti si dice che se te cambi molinaro te cambi ladro.
Non tutto il grano si trasforma in farina, circa un 25% diventa crusca. Il mugnaio poi portava avanti la sua causa dicendo che il grano consegnato non fosse di buona qualità e quindi la resa è minore. Ecco quindi che la farina prodotta tendeva spesso ad essere inferiore a quella che si sperava e ci si aspettava. Da questa c'era poi da scalare la percentuale che spettava al molinaro per il lavoro svolto (un tempo si pagava spesso in natura), generalmente un sedicesimo del prodotto finale lavorato.
Da qui il proverbio: ogni molinaro tira l'acoa al so molin (ogni mugnaio tira l'acqua al suo mulino).
La pesatura veniva effettuata 4 volte: due da parte del cliente al ritiro del grano e alla consegna della farina e due da parte del mugnaio prima e dopo la macina. Con ogni pesatura il prodotto purtroppo diminuiva.

Molto spesso il mulinaio aveva anche il possesso sull'utilizzo delle acque, il cui sfruttamento rientrava nella possessione feudale.
La carenza di grano ha sempre provocato proteste per i ceti più bassi che cercavano di opporsi ai ricchi e ai detentori della produzione, macinazione e commercializzazione della farina. Per molti andare al mulino era dunque un obbligo oltre che un bisogno.

Per poter esercitare il suo lavoro il mugnaio, a differenza di molti altri, quasi sempre sapeva leggere, scrivere e fare di conto (fare i conti) e questo dava alla sua figura ancor più importanza e rispetto agli occhi del popolo.

I mulini ad acqua hanno funzionato fino a metà Ottocentro o al massimo inizio del Novecento, poi sono stati sostituiti da turbine elettriche e poi sono andati in abbandono sostituiti da grandi macchine a motore industriali.
A ricordare la presenza dei mulini sono le numerose contrade e vie sparse nei nostri paesi con denominazione Molin, Molina, Molinara, Valle dei mulini.

Fra i numerosi canti che abbiamo recuperato vi è Pinota che racconta di un mulinaio un po' biricchino.

0 Pinota, bela Pinota,
una grassia vorìa da te.
Dimmi, dimmi che grassia vuoi
che se posso te la farò.
E io vòlio questa grassia
di una note dormir con te.
Vieni, vieni all'undiciore
quando mama e papà non c'è.

0 Pinota, bela Pinota,
l'undiciore son già sonè.
0 Pinota, bela Pinota
o Pinota vien giù da me.
Sono in camera in camiciola
dami il tempo da rivestir.
Ma l'è inutile che ti vesti
dona nuda mi piace a me.

E la mama là dietro a l'ussio
sente tuto l'amor com'è.
0 filiola, bela filiola
chi faceva l'amor con te.
Sarà forse quel mulinaio
che veniva per macinar.
Non c'è grano ne granoturco
ne granelino da macinar.

La Pinota a sediciani
era madre di un bel bambin.
Bianco, rosso e riciolino
somiliava a quel mulinar.
Noi andremo a batesarlo
ne la chiesa di San Martin.
Ci metererno tre bei nomi
Piero, Paolo e Franceschin.


MOLONARO (venditore angurie)


MONDINA

Per la coltivazione del riso i corsi d'acqua vengono adeguatamente canalizzati in appositi campi bonificati con la giusta pendenza del terreno, al riparo da gelate e con lo sfalcio dell'erba. Il riso è una pianta che nasce dell'acqua e si sviluppa in immersione.
La sistemazione del terreno avviene a inizio primavera. La semina prima della meccanizzazione si faceva a mano nel mese di aprile.
Fra maggio e giugno veniva effettuata la monda delle erbacce che tendevano a crescere insieme al riso. Era questo un'operazione fondamentale e molto ingrata costringendo le donne a lavorare chinate con i piedi costantemente nell'acqua. Successivamente le piantine di riso venivano rimosse e rimesse a dimora (trapianto). La mondatura e il trapianto necessitavano del lavoro di molte braccia, braccia per lo più appartenenti a giovani ragazze e a donne che venivano impiegate come lavoratrici stagionali. Anche in Val d'Illasi vi erano donne che migravano a Zevio oppure in Piemonte per la stagione in risaia. Verso metà agosto la risaia veniva svuotata dall'acqua per permettere alle piante di riso di rinforzarsi prima della raccolta. La mietitura del riso avveniva a settembre-ottobre. Le spighe venivano battute sull'aia per la pilatura, attività che veniva affidata agli uomini. Il riso veniva infine lasciato essicare qualche giorno all'aria aperta evitando ammassamenti che non formare umidità.

Il duro lavoro della mondina durava complessivamente 6-7 settimane fra maggio e giugno. Per tutto il tempo le donne lavoravano costantemente nel bagnato, in un'acqua che odorava di fradicio, a gambe nude con le gonne rimboccate fino alle cosce, le mani piene di crepe, il capo coperto da un cappello di paglia che le riparavano dal sole e dalla pioggia, la schiena curva per strappare le erbe. La loro pelle era ferita e irritaa dalle erba, scorpioni d'acqua, cimici, zanzare, bisce, rane e stuoli di moscerini. Durante la mondatura le donne ricurve avandavano in fila, mentre per il trapianto indietreggiavano lungo la risaia.
La giornata lavorativa era di 9-12 ore tutti i giorni, sabato compreso, mentre la domenica lavoravano mezza giornata. Ci si alzava alle cinque del mattino quando ancor era buio e tranne una breve pausa per la colazione il lavoro continuava ininterrottamente fino a mezzogiorno. Una pausa per il pranzo e poi si ritornava in risaia fino alla merenda e poi si proseguiva fino a sera, fino a quando il caposquadra annunciava la fine del lavoro. Le donne erano divise in squadre e sorvegliate da una "capa"che controllava e incitava il ritmo con cui lavorare. Dopo la cena alle 21,00 vi era la ritirata, circa un'ora dopo il padrone passava per lìispezione. La notte avveniva in dormitoi collettivi, spesso rimesse o fienili dove erano sistemate le varie brande. Le risaie erano il luogo della miseria, dello sfruttamento più disumano, ma anche dei sentimenti di solidarietà, di amicizia e di riscatto esistenziale rompendo gli antichi quadri mentali. Donne in "libertà" anche se con i crucci domestici, le inqiuetudini, le speranze di una vita migliore. Nonostante la fatica e lo sfruttamento il lavoro della mondina era un'importante fonte di guadagno per la famiglia.
Il bisogno obbligava ad accettare e a subire quel lavoro maligno, ma in cuor suo la mondina covava insieme all'insoddisfazione anch e l'aspettavita di situazioni più accettabili, la protesta, la ribellione allo sfruttamento, le passioni...


La "battaglia per le otto ore" di cui la storia ci racconta impegnò molte mondine. Durante il lavoro era proibito parlare, ma era concesso cantare per accompagnare il lavoro nell'acqua, per dargli il ritmo "tum, tum". E le donne cantavano, cantavano per struggimento e per allentare la tensione, cantavano strofe di botta e risposta, facendo la cronaca della giornata, cante di opposiioni, di rivolta contro il padrone, contro la vita opprimente della risaia, ma anche di odio e amore di queste povere donne che assumono i caratteri del canto sociale.

Moreto, moreto l'è un bel giovinéto che porta i capelli all'onda del mar...

Mamma non piangere se sono consumata, è stata la risaia che mi ha rovinata...

Sebben che siamo donne, paura non abbiamo, per amor dei nostri figli in lega ci battiamo...

Sciur padrun da li béli graghi gianchi, fora li palanchi, fora li palanchi. Sciur padrun da li béli brachi bianchi, fora li palanchi c'anduma a cà....

Senti le rane che cantano, che gusto che piacere lassiare la risaia, tornare al mio paese...

Poi, verso gl anni Cinquanta, sono arrivate le macchine che misero fine a queste situazioni sociali, culturali e umane. Di quell'epoca resta l'insegnamento e la memoria di chi l'ha vissuta sulla propria pelle e l'ha trasmessa con le proprie testimonianze e nelle cante arrivate ai nostri giorni.


OMBRELARO (ombrellaio)


L'ombrellaio nel dialetto locale di Illasi e di gran parte del veronese si dice ombrelaro.
Il vocabolo deriva da umbrella, termine latino che significa ombra. L'ombrello è stato per decenni un accessorio di lusso utilizzato dalle donne per ripararsi dal sole durante le calde giornate estive.
Gli storici affermano che si è iniziato ad utilizzare l'ombrello come parapioggia solo dal XVIII secolo.

Quando l'ombrello si rompeva non veniva gettato, ma veniva riparato. L'ombrelaro sapeva sostituire le stecche, il manico oppure mettere una toppa sulla tela (tacon in dialetto) se vi era uno strappo o in casi estremi sostituire l'intera tela se logorata.

L'ombrelaro era un ambulante che si spostava portando con se i pochi attrezzi che gli servivano per il suo lavoro. Nel suo peregrinare aveva delle tappe fisse dove si fermava all'angolo di qualche via e sedeva su un gradino in attesa della clientela.


 


PAROLOTO (stagnaio)

Done el paroloto, el stupa un buso e el ghe ne fa oto (donne lo stagnaio, tappa un buco e ne fa otto).... questo era uno dei richiami utilizzato dal paroloto per comunicare il suo arrivo nelle contrade e nelle strade di paese.
Il suo lavoro consisteva nel fondere lo stagno e fare le saldature per aggiustari i vari tipi di recipienti di rame, pentole, padelle.

El paroloto spesso era un ambulante che effettuava le riparazioni lungo le strade, anche perché spesso non si aveva la disponibilità di altre pentole o padelle. Sul foglio di lamiera si applicavano le forme per ottenere l'oggetto desiderato e con un bulino si disegnavano i contorni; poi con una cesoia si ritagliava, si piegava, si modellava, e si saldava. Prima ancora di attaccare il manico agli utensili, si martellava tutto per eliminare quelle forme lisce o lucenti e dare così maggior resistenza.




RESTELINE e SEGAORI (rastrelline e tagliatori del fieno)

Ogni anno in tarda primavera o inizio estate quando l'erba nei prati è abbastanza alta, ma ancora tenera, si inizia a tagliarla, seccarla e portarla nel fienile per avere così la scorta di foraggio per l'inverno. Un tempo tutte le operazioni legate al taglio del fieno erano eseguite a mano. In alcune annate si riesce ad avere il fieno per un successivo secondo taglio, l'ardiva.

Mentre in pianura è più facile avere grandi distese di prato pianeggiante, nelle colline veronesi i prati sono ricavati a spese dei boschi dove ancora oggi non è per nulla agevole coltivare l’erba sui terreni, quasi tutti in forte pendenza.

La falciatura comincia alle prime luci dell’alba. Fin da lontano si sente il rumore prodotto dalla falce che recide gli steli umidi di rugiada.
La falciatura era un lavoro prevalentemente maschile. I segaori (falciatori) si muovevano in riga, come soldatini, lasciando dietro di loro file ordinate di fieno. La falciatura avveniva utilizzando el fero da segar, una falce a manico lungo e ben affilata. Ad intervalli regolari il falciatore capovolge l’attrezzo e el gussa el ferro da segar passando la piera (cote) sulla lama producendo un rumore particolare. Terminato di affilare la lama i falciatori ripondono la piera in un piccolo contenitore con acqua che tengono appeno dietro i pantaloni.

L’erba falciata viene distesa e rivoltata più volte durante la giornata per asciugarla bene. Dopo il taglio dell'erba intervengono le resteline, prevalentemente donne che armate di rastrello hanno il compito di rivoltare il fieno per arieggiarlo e farlo seccare. Operazione molto importante perché un fieno umido e non ben seccato dal sole rischia poi di ammuffire nel fienile e non sarebbbe più idoneo per l'alimentazione animale.
Dopo ore di lavoro i calli sul palmo della mano compaiono e bruciano al contatto con il legno del rastrello e la schiena sempre ricurva duole.
In pochi momenti segaori e resteline possono raddrizzarsi e concedere anche alla schiena un attimo di sosta.

Se la giornata è ben soleggiata prima di sera il fieno è secco a sufficienza, si procede quindi ad accumularlo in lunghe file che poi vengono caricate sul carro e portate in stalla oppure vengono preparati dei covoni sul posto che se ben preparati permettono di preservare il fieno all'interno protegggendolo dalla pioggia e dalle intemperie. Il prato viene ben rastrellato e lasciato perfettamente pulito.
In tempi più moderni si è iniziato ad utilizzare l'imballatrice.

Il fieno in stalla viene utilizzato per l'alimentazione animale (nel veronese soprattutto vacche ma anche pecore, capre, cavalli) nel tempo che intercorre tra il ritorno del bestiamo dai pascoli dopo la transumanza alla ripartenza per gli alti pascoli verso la fine di maggio. Il contadino deve quindi valutare bene di avere una scorta di fieno sufficiente da dosare al bestiame fino a quando non li riporterà fuori dalla stalla a brucare l'erba nei prati.

Oggi tutte le operazioni della fienaggione viene svolta per lo più meccanicamente, tuttavia su alcuni versanti particolarmente ripidi dove non si può accedere con nessuna macchina agricola il lavoro viene ancora svolto manualmente.


SARTE (sarto)


SCARPARO - SCARPOLIN (calzolaio)

El scarparo (calzolaio) è colui che costruiva scarpe su misura e di lunga durata. La qualità delle scarpe era legata alla flessibilità, leggerezza e cuciture a mano. La durata era legata all’abilità nel riparare le scarpe, risuolatura, mettere i sopratacchi e ricucire le parti che si andavano squarciando. Gli attrezzi usati erano delle forme in ferro e in legno di varia dimensione che servivano per inserirci le scarpe, un caratteristico ed affilatissimo coltello, il martello dalla forma caratteristica, tenaglia, lesina, raspa, spago, aghi, colla, cera, pece, vetro per levigare le suole e tutta una serie di piccoli chiodi, il tutto sparso su un basso tavolo da lavoro.
Spesso l'interessato si toglieva in bottega la scarpa da riparare, aspettando il completamento del lavoro di riparazione, anche perché non si possedeva un altro paio di scarpe di ricambio.

 

 


SCARIOLANTI


SENSARO (mediatore)

Vedi paragrafo MEDIATOR


A SERVISSIO (cameriera)

 

 

 

SESTARO (cestaio)

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SPASSACAMIN (spazzacamino)

Era sovente vedere girovagare per le vie dei paesi gli spazzacamini dal momento che erano tanti i fumaioli da pulire. Un tempo infatti tutte le famiglie utilizzavano stufe e camini per riscaldarsi e fare da mangiare, quindi erano molte per lo spazzacamino le richieste da esaudire.

Anche sulle colline veronesi transitavano gli spazzacamini, arrivavano per lo più dalla provincia di Trento, facevano due giri all'anno, uno verso fine ottobre inizi novembre e il secondo verso Pasqua.

Spesso erano accompagnati da un ragazzino dall'aspetto esile e dal fisico quindi idoneo per passare dalle strette canne fumarie.

Il lavoro dello spazzacamino consisteva proprio nel ripulire le anguste e sporche canne fumarie di stufe e camini dove vi rimaneva attaccata la caludene che impediva il corretto fluire dei fumi del carbone e della legna.
Li si riconosceva facilmente, con la faccia nera e con un borsone in spalla contenente i pochi attrezzi da lavoro. Il fumo e la polvere nera della fuliggine dei camini penetrava in profondità nei pori della pelle dello spazzacamino, tanto da lasciargli sul volto e sul resto del corpo un colore scuro molto difficile da togliere oltre che dannoso per la salute.
Proprio per il loro aspetto gli spazzacamini erano una figura un po' tenebrosa, spesso gli adulti intimorivano i loro figli dicendo che se fossero stati cattivi sarebbe arrivato "l'uomo nero" a prenderli.

Gli attrezzi che utilizzavano per il loro mestiere erano il riccio, la raspa, lo scopino e le corde.

Sono numerose le canzoni sugli spazzacamini. Di seguito il testo del canto Spassacamin che narra di uno spazzacamino un po' biricchino.

Spassacamin

Spassacamin che vien dai monti vien dai monti a la cità
va gridando care done ghio 'l camin da far spassar.
a … a … a … a …

Salta fora 'na sposeta la ghe dise 'l vegna qua
la ghe dise 'l vegna qua che gò 'l camin da far spassar.
a … a … a … a …

El tira fora la raspeta, 'l tira fora el martelin
el ghe da 'na ociadina po 'l va su par el camin.
o … o … o … o …

Si ritiri bela signora, si ritiri per carità
se la polvare la va in gola la va a rischio di crepar.
a … a … a … a …

El finisse de spassare, el vien so par el camin
la sposeta la se pronta la ghe mostra 'l borselin.
o … o … o … o …

El ghe dise no signora mi no voio el borselin
volio solo la bicicleta per andar fino a Torin.
drin drin drin drin.

Informatore: Coro delle contrade

 


Cecilia C. classe 1934 si ricorda che quando era piccola ed abitava a Bolca, un paesino dei monti Lessini, tutti gli anni passavano due spazzacamini (padre e figlio) di Trento che si fermavano sempre da loro per pulire i camini delle abitazioni. La sera mangiavano insieme con la loro famiglia. Dopo cena si inginocchiavano posando i gomiti sulla tovaglia, badando a non macchiarla di fuliggine e intrattenevano la famiglia ospitante con preghiere, filastrocche e storie. Si ricorda in particolare una storia che narra di una vedova che accetta la sfida del diavolo di imparare a memoria Le dodici verità di Nostro Signore in cambio del pasto permanente per sè e per i suoi figli. La donna presa dalle quotidianità domestiche si dimentica del patto. La sostituisce Sant'Antonio nel dialogo col diavolo.

Tum, tum - Chi è che batte - Amici per uno.
L'unico Cristo, casa Manuele, viva sto Regno, sempre sia lodato.
Tum, tum - Chi è che batte - Amici per due
I due testamenti, il vecchio e il nuovo,
l'unico Cristo, casa Manuele, viva sto Regno, sempre sia lodato.
Tum, tum - Chi è che batte - Amici per tre
I tre profeti, i due testamenti, ….
Tum, tum - Chi è che batte - Amici per quattro
I quattro evangelisti, i tre profeti, …
Tum, tum - Chi è che batte - Amici per cinque
Le cinque piaghe di nostro Signore Gesù Cristo, i quattro evangelisti, …
Tum, tum - Chi è che batte - Amici per sei
Le sei lampade di Belém, le cinque piaghe di nostro Signore Gesù Cristo, …
Tum, tum - Chi è che batte - Amici per sette
Le sette strade di Gerusalemme, le sei lampade di Belém, …
Tum, tum - Chi è che batte - Amici per otto
Gli otto salmi di David, le sette strade di Gerusalemme, …
Tum, tum - Chi è che batte - Amici per nove
I nove cori degli angeli, gli otto salmi di David, …
Tum, tum - Chi è che batte - Amici per dieci
I dieci comandamenti, i nove cori degli angeli, …
Tum, tum - Chi è che batte - Amici per undici
Le undici-mila vergini, i dieci comandamenti, …
Tum, tum - Chi è che batte - Amici per dodici
I dodici apostoli, le undici-mila vergini, i dieci comandamenti, i nove cori degli angeli, gli otto salmi di David, le sette strade di Gerusalemme, le sei lampade di Belém, le cinque piaghe di nostro Signore Gesù Cristo, i quattro evangelisti, i tre profeti, i due testamenti, il vecchio e il nuovo, l'unico Cristo, casa Manuele, viva sto Regno, sempre sia lodato.

Esiste ancora lo spazzacamino, ma oggi i camini si puliscono per lo più attraverso l’utilizzo di apposite apparecchiature tecnologiche che vengono inserite direttamente nei camini o nelle stufe più moderne. Per pulire le canne fumarie non serve più intrufolarsi all'interno, fanno tutto le macchine, anche se chiaramente c'è comunque bisogno di un occhio attento che controlli l’operato della macchina.


STRAMASSARO (materassaio)

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TIRAOSSI e STRIOSSI (massaggiatore e guaritori)

La tiraossi era una guaritrice che con il magico massaggio delle sue mani e l'utilizzo di qualche olio benefico leniva slogature, dolore muscolare, mal di schiena. Il lavoro veniva insegnato e tramandato di madre in figlia.
Vi erano poi le striosse (guaritrici) che erano in grado di curare anche dal malocchio o dai vermi o altre malattie con l'utilizzo della medicina popolare o di acqua santa accompagnate sempre da apposite giaculatorie (preghiere).

Esistono ancora delle donne che esercitano questo mestiere anche se ormai la gente per risolvere i propri dolori si rivolge ai professionisti laureati in fisioterapia.


TOSAPEGORE (tosatore pecore)

 


VENDEMADOR (vendemmiatore)

 

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Fonti e informatori

La maggior parte di quanto sopra riportato è di nostra conoscenza, e dei molti anziani che negli anni ci hanno dato conferma con la loro testimonianza del sapere popolare. Per chi è in cerca di conferme o approfondimenti consigliamo la lettura di alcuni libri di seguito riportati.

Dal libro "La Moscarola" del Canzoniere del Progno - Editrice La Grafica di Vago di Lavagno (VR)- GBE Gianni Bussinelli editore, 2017

Dal libro "Vita e tradizioni in Lessinia" di Ezio Bonomi - Cierre edizioni - 1994

Dal libro "Santi e contadini" di Dino Coltro - La Grafica di Vago di Lavagno (VR) - 1982

Dal libro "I proverbi no' i è mati" di Ezio Bonomi - editrice La Grafica di Vago di Lavagno (VR) - 2009

Dal libro "C'erano una volta vecchi mestieri" di Carlo G. Valli - Cierre edizioni - 2002

Dal libro "Di casa in casa" di Pier Paolo Frigotto - Cierre edizioni - 2015

Dal libro "Canzoniere del Progno" - Cierre edizioni - 1997

 


 

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